“La cultura in Italia sta a sinistra” è una delle frasi più banali e abusate del dibattito pubblico del nostro paese sia da destra, per denunciare l’egemonia degli avversari, sia a sinistra, per rimarcare una superiorità culturale e morale rispetto a tutti gli altri.

Una delle più importanti novità del governo Meloni risiede proprio nel cercare di mettere in discussione questo assunto, cioè di uscire a destra dallo “stato di minorità” culturale e, nel contempo, contestare con più aggressività il predominio culturale della sinistra.

La differenza tra i due mondi resta sostanziale, c’è da intendersi su questo, in quanto la destra non potrà colmare in breve tempo il divario tra il sistema editoriale, culturale, organizzativo della sinistra e il proprio, ben più modesto.

Tuttavia, essere al governo, e con certi nomi ai ministeri, rappresenta un tentativo di mettere in crisi la narrazione e costruire una contro-egemonia, intraprendere una soffice ma decisa culture war.

Per la prima volta c’è un governo di destra con una posizione culturale molto netta. Di più, l’esecutivo sembra avere un preciso programma di contestazione del progressismo. Una novità per una destra che ha sempre trascurato questi aspetti per prediligere quelli di taglio economico e securitario. 

La ridenominazione dei ministeri, l’attenzione al linguaggio, la scelta di figure politiche che da anni lavorano sul fronte del conservatorismo e la messa in discussione sistematica dei pilastri del pensiero progressista sono gli ingredienti della nuova ricetta della destra.

Non è populismo

Questo approccio ideologico e identitario del governo segnala una novità ma per molti versi chiarifica e semplifica il sistema politico dopo un decennio di alternanza tra commissariamento tecnocratico e nuovi avventurieri del potere di origine populista. Qui è necessario non cadere nell’usuale abbaglio populista, che è stato la base di molti degli equivoci politici di questi anni.

Questo governo non ha nulla di populista o antisistema. Anzi, il governo Meloni è il governo dell’establishment di destra. Fatto di politici di lungo corso, tecnici e rappresentanti di categorie.

Annacquarlo con la solita etichetta sciatta del “populismo” significherebbe non capire nulla, e dunque sottovalutarne la portata.

I populisti rifiutano la distinzione binaria tra destra e sinistra, si sentono trasversali, contestano la classe politica professionale e l’oligarchia economica, puntano sulla voglia di riscatto dei ceti più bassi della società, diffidano dello stato e soprattutto considerano la volontà del popolo, di cui si pongono come interpreti, superiore a tutto il resto, inclusa la nazione.

Le destra della Meloni, ma anche degli Urso, dei Crosetto, dei Fitto, dei Giorgetti, è tutta un’altra cosa sul piano politico e soprattutto culturale. Quello di Fratelli d’Italia, e del mondo che gravita attorno al partito, è il tentativo di spostare il conflitto dal classico spartiacque “sociale” tra sinistra-destra, che a molti elettori appare obsoleto, a quello tra conservatorismo e progressismo.

Logica conseguenza del fatto che dal 1968 in poi le idee progressiste hanno fatto continui passi avanti nella società a spese di quei valori di destra, come la famiglia, la nazione, l’identità religiosa, in cui un pezzo consistente dell’elettorato italiano dimostra di credere ancora.

A partire dagli anni Sessanta del Novecento, quel che era riuscito a sopravvivere delle strutture sociali tradizionali è stato delegittimato e smantellato.

I concetti su cui il pensiero conservatore si fondava sono stati sottoposti a una spietata critica filosofica e storica.

Per i progressisti le nazioni sono delle comunità immaginate e le tradizioni delle invenzioni, le identità individuali e collettive sono multiple e artefatte, e non c’è niente di così artificiale come la natura.

Queste idee, che si erano consolidate in tre decenni (1970-2000), si sono invece dimostrate deboli negli ultimi vent’anni, con l’arrivo di nuove incertezze e paure.

Illusione progressista

I primi due decenni del ventunesimo secolo, con il terrorismo islamico, la grande crisi finanziaria, la pandemia, il reflusso negativo della globalizzazione, hanno dimostrato che il “consolidamento progressista”, ovvero la presunzione che quelle idee di progresso e superamento delle tradizioni fossero state completamente assimilate dalle popolazioni occidentali, non era che un’illusione.

Di fronte a crisi e cambiamenti rapidi ed epocali, gli elettori hanno cominciato a chiedere che il ritmo forsennato del cambiamento rallentasse e che fosse ripristinato qualche minimo punto di riferimento, come per l’appunto la famiglia, la nazione, le tradizioni locali.

Insomma, per dirla con Simone Weil: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana» e negli ultimi due decenni la spinta al radicamento è tornata forte.

Il governo Meloni, e il suo successo elettorale, si situano proprio in questa traiettoria. Le difficoltà e i limiti per il conservatorismo su questo piano restano molte, in primis per la scarsa tradizione storica di questa corrente di pensiero in Italia.

Tuttavia, l’obiettivo questa volta appare chiaro: evitare che alle urne piene seguano le librerie vuote. Un dato da tenere in considerazione se si vuole davvero provare a capire ciò che abbiamo davanti.

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