Non c’è libertà di manifestazione che tenga, né onere da parte delle forze dell’ordine di misurare la reazione a seconda dei contesti. Non bastano nemmeno i manganelli sui liceali di Pisa o il richiamo del Quirinale a scalfire quello che si è dimostrato come l’unico punto identitario su cui tutto il centrodestra si è ritrovato: la polizia non si tocca.

Il primo ad aver dettato la linea è stato Matteo Salvini, che delle forze dell’ordine ha sfoggiato tutte le felpe e che oggi continua a essere il campione della difesa senza se e senza ma. Immediatamente dopo i fatti si è lasciato andare a un «Chi picchia gli agenti è un delinquente».

Poi ha alzato il tiro con un «Non si mettono mai in discussione le forze dell’ordine, è pericoloso per la tenuta della Repubblica». L’effetto è stato quello ormai consueto di creare una rincorsa a destra, in cui a ruota l’ha seguito la premier Giorgia Meloni, che nei giorni scorsi era rimasta nel canonico silenzio in cui si chiude ogni qualvolta si presentino situazioni che aprono degli interrogativi politici, come è stato anche nel caso Ilaria Salis. «Pericoloso togliere il sostegno delle istituzioni alle forze dell’ordine», ha tuonato Meloni in un implicito riferimento all’intervento di Sergio Mattarella.

Infine è arrivato anche il serafico Antonio Tajani, che ha rispolverato una semi citazione pasoliniana dicendo che è «sbagliato fare il processo alle forze dell’ordine. Sono figli del popolo e spesso quelli che li attaccano sono figli di papà radical chic, violenti che non hanno nessun rispetto della legge». Sono seguiti fiumi di agenzie di tutti i principali esponenti del centrodestra a fare a gara a chi fosse più solidale con la polizia, minimizzando o ignorando i fatti di Pisa.

A mettere il sigillo sul muro del governo è stato il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che pure è stato il primo a essere chiamato da Sergio Mattarella, con il quale ha condiviso il monito sul fatto che manganellare dei minorenni sia «un fallimento». Il ministro ha ricostruito la dinamica dei fatti e anche le responsabilità dei manifestanti, poi ha ribadito che la linea del governo nella gestione dell’ordine pubblico non è mai cambiata: «Va fermamente respinta ogni suggestione che vi sia un disegno del governo per reprimere il dissenso politico e che questo disegno sia eseguito dalle forze di polizia».

Nuove assunzioni

Anzi, la vera risposta di Piantedosi è arrivata nella parte di informativa urgente in parlamento sui fatti di Pisa, dove il bilancio è stato di 17 manifestanti feriti, di cui 11 minorenni, e due agenti contusi. Per il governo Meloni, la soluzione ai problemi nella gestione di ordine pubblico è un massiccio piano di assunzioni tra i ranghi delle forze dell’ordine e una disponibilità ad ascoltare ogni «esigenza e istanza proveniente dal personale».

Il piano, a cui Piantedosi lavora già da mesi, proprio ora si sta configurando come ormai imminente: «Abbiamo sempre avuto come priorità le esigenze delle forze di polizia e il complessivo potenziamento del sistema della sicurezza pubblica. Grazie al Fondo per le assunzioni e agli stanziamenti assicurati ancora per gli anni a venire, dai 90 milioni per il primo anno si arriva progressivamente a 125 milioni a partire dal 2033, stiamo attuando un’inversione di tendenza storica rispetto ai tagli operati nel passato».

Meloni in persona ha dato «la disponibilità a convocare di nuovo il tavolo con le organizzazioni sindacali per avviare, alla sua presenza, le trattative finalizzate al rinnovo contrattuale». La strategia, dunque, è quella della testuggine in difesa dei corpi di polizia, molti distinguo davanti alle immagini dei pestaggi a Pisa e anche una mano tesa alle loro istanze contrattuali.

In questo gioco a chi alza più scudi, la posizione del governo affonda in uno storico legame della destra con le forze dell’ordine. Ormai noto è quello di Salvini con la polizia, con cui ha mantenuto un legame forte sin dai suoi anni al Viminale, come anche quello del sottosegretario Andrea Delmastro con la polizia penitenziaria. Legami strettissimi e fruttuosi da entrambe le parti, gli uni per conto elettorale, gli altri per la garanzia di avere sempre un orecchio attento nei ministeri.

Del resto l’argomento securitario è stato il filo conduttore delle ultime campagne elettorali a destra ed è stato declinato in molti modi, sempre con Salvini in testa, ma con Meloni a seguire: contro i migranti, contro gli organizzatori dei rave party, contro i manifestanti.

Proprio il clima di campagna elettorale è un fattore non trascurabile: la sconfitta sarda ha riacceso lo scontro interno tra Fratelli d’Italia e Lega anche in vista delle europee, ma ha anche portato a una stabilizzazione delle candidature per le prossime regionali, con la conferma degli uscenti in Basilicata, Umbria e Piemonte.

La prossima sfida, però, sarà in Abruzzo, dove il pronostico è quello di un testa a testa tra l’uscente meloniano Marco Marsilio e il competitor Luciano D’Amico. La corsa al consenso non passa solo dalle forze dell’ordine, ma è diventata un testa a testa interno senza esclusione di colpi.

L’ultimo – basso – è stato assestato da Meloni a Salvini. La premier ha soffiato al suo ministro l’annuncio del maxi finanziamento da 720 milioni per la linea Roma-Pescara, intestandosi la «messa in sicurezza di un’opera strategica». Guarda caso, di competenza del Mit.

Immediata è arrivata la nota piccata della Lega, che parla di delibera che destina fondi di competenza del Mit, in sostituzione di un finanziamento del Pnrr, a «conferma dell’attenzione di Salvini». Scaramucce, ma che trasmettono il clima dentro il governo.

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