Alle radici della destra di governo c’è la storia di due leader del Msi, Giorgio Almirante e Pino Rauti. Uno, teorico del doppiopetto e manganello. L’altro, dell’eversione. Non «fascisti in democrazia», come si autodefiniva Almirante, ma Fascisti contro la democrazia, come spiega sin dal titolo il saggio dello storico Davide Conti, già autore di altre ricerche sulla destra italiana.

Sulla base di un’ampia mole di documenti, Conti ricostruisce la vicenda del Msi dalla nascita del 1946 al 1976 e con essa la costante rivendicazione dell’estraneità missina alla Repubblica e ai valori costituzionali. Ne indica l’intreccio con gli istinti e le trame eversive della destra extraparlamentare. Un disegno fallito, possiamo dire oggi con sollievo. Ma cosa lascia in eredità? «La trama eversiva nel suo esito più radicale, il colpo di stato, il rivolgimento anticostituzionale, non raggiunge lo scopo. Ma il lascito di quell’esperienza segna la storia della Repubblica», risponde Conti, «Il Msi dalla nascita si pone come elemento di raccolta di istanze ostili alla democrazia nata dalla Resistenza, e quindi alla Costituzione repubblicana. Un’avversità che, come sottolinea Aldo Moro in un discorso del 1962, non risiede solo nell’estrema destra ma anche in quella parte del paese che intende la Costituzione come un nemico degli assetti economici e di potere che avevano governato l’Italia, dall’Unità in poi. Il Msi rappresenta la sfida di questo non detto della Repubblica».

Presente anche nel governo. A partire, lei scrive, dal 1965.

Nel maggio di quell’anno si svolge un convegno dell’Istituto di studi militari Alberto Pollio finanziato dal ministero della Difesa sul tema della «guerra rivoluzionaria» e della lotta al comunismo. Per l’Italia il conflitto con il mondo comunista rappresentava il fattore costituente della collocazione internazionale. In quel convegno, in modo ufficiale, convergono due modalità di anticomunismo: quello “bianco” e istituzionale, e quello nero che fa capo alle frange più estreme di cui Rauti fa parte. Proprio il fondatore di Ordine nuovo tiene una delle relazioni principali. Quel consesso disegna profilo e forme di quella che poi sarà chiamata la “strategia della tensione”.

Nel 1969 Rauti, che aveva lasciato il Msi per incompatibilità con il segretario “moderato” Arturo Michelini, rientra in nome della politica “dell’ombrello” istituzionale. Perché?

Oggi sappiamo sia sul piano storico che giudiziario, che Ordine nuovo ha eseguito la strage di piazza Fontana. Il 14 novembre 1969, un mese prima, Rauti e una parte di On rientrano nel Msi. La “politica dell’ombrello” è la ricerca di una protezione istituzionale dai problemi giudiziari che potrebbero emergere all’indomani del 12 dicembre. La strage fu anticipata da mesi di attentati contro treni, monumenti alla Resistenza, persino una bomba all’entrata del Senato.

Per la “strategia” le stragi dovevano fare da detonatore.

La «piazza di destra» rappresenta un richiamo continuo della mobilitazione neofascista almeno fino al 1974 e più volte si intreccia con eventi eversivi. Il 14 dicembre a Roma era in programma un “appuntamento con la nazione” del Msi, poi vietato grazie a Ugo La Malfa. Alla tentata strage sul treno Roma-Torino del 7 aprile 1973, fece seguito il “giovedì nero” del 12 aprile a Milano: un corteo missino non autorizzato terminò con il lancio di bombe a mano, morì l’agente Antonio Marino. È una misura di destabilizzazione dell’ordine pubblico finalizzata alla stabilizzazione in chiave reazionaria dell’equilibrio politico. In quel momento il paese vive una trasformazione democratica e non a caso la strage di piazza Fontana avviene poche ore dopo l’approvazione al Senato dello Statuto dei lavoratori. L’attentato non è rivendicato e anzi tenta di far ricadere sulla sinistra la responsabilità del massacro secondo le linee indicate dal convegno del 1965. Questa fase si chiude il 28 maggio 1974 quando la strage di piazza della Loggia a Brescia contro una manifestazione antifascista rimuove definitivamente, anche nell’opinione pubblica, l’ipotesi che quelle stragi possano essere riconducibili all’estrema sinistra.

In quel ‘74 Ordine nuovo verrà sciolto. Non il Msi, ma Almirante prova a “ripulire” il suo partito dagli eversori. Cosa è cambiato?

Il contesto. La politica di Almirante, dal ‘69 al ‘74, promuove la piazza di destra per alimentare la tensione. Resta iconica la foto che lo immortala all’università di Roma alla guida di neofascisti armati di spranghe che aspettano gli studenti per aggredirli. Dopo ci saranno lo squadrismo nelle città, nelle scuole e nelle fabbriche. E la rivolta di Reggio Calabria guidata da “Ciccio” Franco, senatore Msi. Quella fase si chiude nel ‘74, l’anno delle due stragi, Italicus e Brescia, e l’anno di svolta del rapporto fra istituzioni e neofascismo. Gianadelio Maletti, capo dell’ufficio D del servizio segreto militare, affermerà che fino al 1974 nessun politico aveva mai spiegato ai militari che dovevano difendere la Costituzione, a tutti avevano spiegato che dovevano difendere il paese dal comunismo.

L’anticomunismo è il pilastro su cui il Msi si accredita come forza costituente di una nuova Repubblica?

A ogni nuova legislatura Almirante propone una riforma costituzionale in senso presidenziale. Il tentativo è quello di sostituire la discriminante storica fondativa dell’antifascismo con una discriminante geopolitica, l’anticomunismo, che può determinare il superamento della Costituzione repubblicana e una ridefinizione dei suoi valori. Questo segna la continuità con le riforme che propone la destra di oggi. Non solo e non tanto dal punto di vista formale, ma dal punto di vista sostanziale: disconoscere l’antifascismo come elemento fondativo della Repubblica. Da questo obiettivo storico-politico della destra muove, anche, il rifiuto di dichiararsi antifascista.

Altro elemento di continuità con l’oggi è il vittimismo, lei lo definisce «autorappresentazione vittimaria».

Si fonda sull’idea che il nostro paese sia stato prima di tutto vittima piuttosto che carnefice nella Seconda guerra mondiale. Il neofascismo si autorappresenta come una minoranza discriminata nel corpo della Repubblica, benché la stessa Repubblica consenta l’esistenza di un partito che esplicitamente si contrappone ai valori democratici. Il vittimismo negli anni Settanta diventa poi un canone narrativo, gli “esuli in patria”, mira a rimuovere dall’immaginario collettivo la violenza praticata dall’estrema destra nel nostro paese.

Nel 1994 Rauti rifiuta la svolta di Fiuggi e dà vita alla scissione della Fiamma tricolore. Ma già nel ‘77 aveva riformulato il suo percorso. Qui nascono i primi campi Hobbit, da cui il mito di Tolkien.

I primi campi Hobbit nascono fra il 1976 e il 1977, un’esperienza che rappresenta un divenire dell’area rautiana che muta rispetto alla tradizione di Julius Evola che fu il maestro e mentore di Rauti. Quella formazione generazionale è un tratto della destra neo e post fascista. Forma la classe dirigente che poi guiderà i partiti che nascono dalla scissione del 1994: tanto la Fiamma di Rauti quanto An, che mantenne la fiamma nel simbolo. Oggi FdI fa della fiamma un segno identitario del partito.

Crede che questa fiamma possa essere abbandonata?

Difficile, almeno per ora, rappresenta una radice da cui chi guida FdI non può smarcarsi per il lungo vissuto in quella comunità politica. Ne spiega anche i silenzi comuni sugli episodi più drammatici della traiettoria del neofascismo e del postfascismo. È emblematico il caso emerso nell’ultimo anniversario della strage di Bologna. Un ex esponente di Terza posizione, ha sostenuto pubblicamente di avere una verità alternativa rispetto alla sentenza che individua i neofascisti dei Nar come i responsabili della strage. In FdI quella tesi è ampiamente condivisa. Fra quei dirigenti c’è chi stava nei comitati promotori dell’innocenza dei condannati. E perfino il nome del comitato, “Nessuno di noi era a Bologna”, allude a una comunità che, se pure poi si è divisa, mantiene quel vincolo.

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