Il discorso che il presidente Sergio Mattarella ha tenuto all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa tre giorni fa è importante per più ragioni, ma soprattutto va letto nella sua interezza.

Dopo avere ricordato la radice di quella istituzione, una spinta al multilateralismo nell’idea che all’indomani del secondo conflitto mondiale solo una collaborazione tra nazioni avrebbe potuto prevenire nuove tragedie, il capo dello stato ha citato Robert Schuman, «la pace non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano».

Una pace, cito ancora, che «non si impone automaticamente, da sola, ma è frutto della volontà degli uomini».

Il presidente della Repubblica ha ribadito la condanna più ferma della Federazione Russa responsabile dell’atroce invasione dell’Ucraina e rimarcato la scelta di Mosca di collocarsi «fuori dalle regole cui aveva liberamente aderito, contribuendo ad applicare».

La stessa espulsione dal Consiglio d’Europa è da ritenere una sanzione la cui responsabilità ricade interamente sul Cremlino. Con la stessa chiarezza il capo dello stato ha confermato l’impossibilità di arretrare dalla trincea della difesa dei diritti umani e dei popoli.

E insieme a ciò ha confermato il compito della comunità internazionale che consiste oggi nell’ottenimento del cessate il fuoco e nella possibilità di fare ripartire la costruzione «di un quadro internazionale rispettoso e condiviso che conduca alla pace».

Parole nette a segnalare come da questa crisi, dalla tragedia in atto, la via di uscita «appare, senza tema di smentita, soltanto quella della cooperazione e del ricorso alle istituzioni multilaterali».

Insisto, vi sono frasi di quel discorso che da parte della politica tutta e dell’Europa in primo luogo meriterebbero la riflessione più attenta e profonda. Ha detto il presidente Mattarella, «per un attimo, esercitiamoci – prendendole a prestito dal linguaggio della cosiddetta “guerra fredda” –  a compitare insieme parole che credevamo cadute ormai in disuso, per vedere se possono aiutarci a riprendere un cammino, per faticoso che sia».

E quelle parole mai come oggi ci parlano: «Distensione: per interrompere le ostilità. Ripudio della guerra: per tornare allo status quo ante. Coesistenza pacifica, tra i popoli e tra gli Stati. Infine, Helsinki e non Yalta: dialogo, non prove di forza tra grandi potenze che devono comprendere di essere sempre meno tali».

Sino alla conclusione: «Prospettare una sede internazionale che rinnovi radici alla pace, che restituisca dignità a un quadro di sicurezza e di cooperazione, sull’esempio di quella conferenza di Helsinki che portò, nel 1975, a un atto finale foriero di sviluppi positivi. E di cui fu figlia la Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Si tratta di affermare con forza il rifiuto di una politica basata su sfere di influenza, su diritti affievoliti per alcuni popoli e paesi e, invece, proclamare, nello spirito di Helsinki, la parità di diritti, la uguaglianza per i popoli e per le persone».

Con una dose di coraggio il nostro presidente della Repubblica ha teso a marcare due concetti: che nessuno può immaginare un disallineamento interno al campo delle democrazie sulla premessa di fondo, la condanna più ferma dell’invasione militare dell’Ucraina da parte della Federazione Russa.

Allo stesso tempo ha indicato quale compito della politica la capacità di coltivare, anche nei contesti più drammatici, il linguaggio e le categorie della pace e di una possibile nuova cooperazione.

Credo che il governo italiano, e nell’ambito della sua maggioranza il Partito democratico, non possano che trarre un ammonimento e un’indicazione di rotta da un discorso che per autorevolezza e profondità mai come in questo e nei prossimi delicatissimi passaggi rappresenta la bussola da seguire.

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