Che Giuseppe Conte abbia preso malissimo l’intesa fra Giorgia Meloni ed Elly Schlein per un «cessate il fuoco umanitario» a Gaza è stato chiaro subito, martedì pomeriggio, sin dai minuti immediatamente dopo la votazione che ha portato al sì a quel passaggio della mozione Pd.

I Cinque stelle hanno cominciato a ridimensionare il significato del voto, e a parlare di «gioco delle tre carte» da parte della destra. Mercoledì Riccardo Ricciardi, vicepresidente M5s, ci è tornato a La7: «Non è importante, semmai è grave che la maggioranza di governo si sia astenuto sul cessate il fuoco perché di fatto continua a non esprimersi come ha fatto mesi fa all’Onu».

La verità è che brucia: brucia l’asse privilegiato fra palazzo Chigi e Nazareno, brucia il fatto che Schlein si sia messa alla testa dell’opposizione, portando il governo a cambiare linea, anche se per ora solo sulla carta. Mercoledì mattina lo stato maggiore del Movimento si è dato vistosamente appuntamento alla buvette della Camera. In aula intanto si è preso una rivincita: al voto sui componenti della commissione Vigilanza sulla Cassa depositi e prestiti, il candidato pentastellato Gianmauro Dell’Olio ha battuto quello dem Luciano D’Alfonso. Novantuno voti contro 88: per i dem è stato chiaro che a Dell’Olio sia arrivato qualche aiutino dei leghisti.

Uno «scippo», lo hanno definito, con commenti ruvidi. «Noi dialoghiamo con la maggioranza per il cessate il fuoco in medio oriente, il M5s per le poltrone». Accusa restituita al mittente: da M5s viene spiegato che il Pd aveva già eletto il suo uomo al Senato (Nicola Irto) e pretendeva anche la seconda casella riservata alle opposizioni: «Un atteggiamento da grande abbuffata».

Resta il fatto che il voto su Gaza consegna, nella minoranza, il vantaggio a Schlein rispetto a Conte. Meloni ha dato un’indispensabile mano, trattando direttamente con lei nel corso di due telefonate. Così mercoledì tutti i giornali, amici o nemici, hanno dovuto riconoscere a Schlein l’efficacia della tattica di gioco.

Ma l’assist era venuto da palazzo Chigi. Per di più inaspettato: è vero che Schlein aveva annunciato a mezzo stampa – sul Corriere della sera, domenica – l’intenzione di parlare con la premier; ma martedì, fino alla tarda mattinata, neanche i più vicini alla premier erano stati avvisati del dialogo.

Interrogati sul punto, negavano, ma in buona fede. Solo il ministro degli Esteri Antonio Tajani ne aveva contezza e prima del voto, parlando dell’operazione su Rafah, ha preannunciato la correzione di rotta sul governo Netanyahu: «A questo punto la reazione di Israele è sproporzionata, ci sono troppe vittime che non hanno nulla a che fare con Hamas».

Mercoledì Tajani ci è tornato su, rovesciando la notizia del giorno precedente: «Sulla politica estera sono lieto che la sinistra abbia compreso che non ci si deve dividere. Che ci sia una visione comune rafforza la posizione dell’Italia».

Timeo danaos

Ma torniamo al voto di martedì. La domanda è: perché Meloni ha fatto questo bel regalo di San Valentino a Elly Schlein?

«Timeo danaos, et dona ferentes», è la risposta del senatore Enrico Borghi, di Italia viva. Nel senso che non bisogna fidarsi di quelli che sembrano amici, anche se portano doni. Una massima che neanche ai dem sfugge. Mercoledì hanno continuato a vantare la vittoria del «cessate il fuoco»: ma sanno che la scelta di Meloni non è stata affatto disinteressata.

Intanto la cornice geopolitica: negli ultimi giorni prima del voto d’aula, Joe Biden alza la voce contro Netanyahu per l’annuncio dell’operazione su Rafah; e anche il Vaticano; e la Francia vota le sanzioni contro i coloni israeliani in Cisgiordania. Insomma l’“occidente” si sta freddando verso le scelte del governo israeliano. Il governo italiano, oltranzista atlantico, non può non seguire l’alleato Usa. In attesa che l’arrivo di Trump alla Casa Bianca cambi l’orientamento delle potenze «occidentali».

Effetto Berlinguer

Dunque Meloni, storica amica di Netanyahu, ma non indifferente al cambio di temperatura dell’opinione pubblica verso il massacro dei civili in Palestina (e nella base del suo partito, tradizionalmente sensibile alla causa palestinese) coglie al balzo la possibilità di allineare l’Italia agli Usa lasciando che sia l’opposizione a guidare la (mezza) virata, «senza sporcarsi le mani», spiega un deputato dell’opposizione che segue da vicino la vicenda mediorientale. Guadagnandoci «la statura da statista», della premier capace di dialogare con l’opposizione che fin qui non è mai riuscita ad essere.

Un tema a cui negli ultimi tempi Meloni pone particolare attenzione: lo si è visto dallo strepitoso servizio fotografico che si è fatta scattare dai suoi lo scorso 8 febbraio alla bellissima mostra romana su Enrico Berlinguer a Roma, durante una visita quasi in solitaria, guidata dal «mitico» Ugo Sposetti, gran custode delle memorie Pci, e da Alexander Höbel, storico rigoroso e curatore della mostra (e biografo di Luigi Longo).

A sua volta, Schlein ha tutto da guadagnare: conferma la «polarizzazione» dello scontro con la premier e la guida dell’opposizione. Restava il non trascurabile cimento di tenere compatto il Pd sulla “collaborazione” con il governo.

E qui siamo al paradosso, una di quelle situazioni tipiche del flipper interno del partito: se all’inizio era l’ala riformista (guidata da Lorenzo Guerini, il presidente del Copasir) a nutrire dubbi su una mozione molto severa verso Israele, ora – cioè martedì all’ora di pranzo – è l’ala sinistra a pretendere di più; e invece l’ala riformista a sostenere la segretaria nella sua «postura bipartisan» (ma nel concitato confronto di quella mezz’ora ha contato anche l’appoggio di Andrea Orlando e Matteo Orfini); insieme suggerendo di votare le mozioni delle opposizioni per parti separate, per non dare l’idea di rompere con i partiti fratelli a vantaggio dell’asse Chigi-Nazareno.

Resta da valutare, per la segretaria, il fatto che affidarsi alle mosse della potente avversaria può essere rischioso, nel corso della campagna per le europee. Ma fino a qui tutto bene. Anche se siamo solo all’inizio.

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