“Meloni se apoyará en Tajani, Mattarella y Draghi” titolava il fondo dello spagnolo El Pais nei giorni della formazione del governo. In quest’ordine. «Tajani – si poteva leggere – è l'uomo chiave perché il governo funzioni negli ambienti sempre più influenti della comunità europea».

I media spagnoli non sono nuovi a tali giudizi sul nostro vicepremier e ministro degli Esteri. Ma lo è anche la stampa europea in generale fin dal 2008. Se Giorgia Meloni ha trovato orecchie attente negli ambienti europei, lo deve anche ad Antonio Tajani.

Quest’ultimo ha convinto il Partito popolare europeo che la coalizione nascente non era di “estrema destra”, espressione che in Europa ha un significato ben preciso. Non a caso Marine Le Pen sui nostri media ha preso le distanze dalla premier sia a proposito del suo filo-atlantismo sia sull’Europa.

La scuola di Bruxelles

Abile negoziatore, esperto di questioni europee, sostenitore del processo d’integrazione (incluso l’Euro), Antonio Tajani non è estraneo a tale sviluppi. Ha svolto quasi tutta la sua carriera politica fuori Italia ed è colui sul quale Meloni può contare per dare la giusta immagine del suo esecutivo all’estero.

Bruxelles è una grande scuola e chi sa approfittarne ne trae molti insegnamenti utili, soprattutto quando molto della politica interna ed estera ormai si confonde. Per questo spesso i media italiani sono incerti su come trattarla: si parla di vincolo esterno quasi fosse un limite, per poi accorgersi che è un vantaggio e comunque riguarda tutti gli stati membri.

L’odiato esilio

LaPresse

In patria i colleghi di Tajani dentro Forza Italia non se lo aspettavano come coordinatore del partito. Una delle ragioni è la poca considerazione data alla politica europea (soprattutto all’inizio della storia degli azzurri) e alla politica estera in generale.

Forza Italia non aveva nemmeno un vero e proprio dipartimento delle relazioni internazionali. Negli anni d’oro berlusconiani non erano in pochi a pensare che essere “spediti in Europa”, come si diceva allora, rappresentasse una specie di esilio. Tajani ha fatto di questo un punto di forza. Qualcosa di simile è accaduto anche a Franco Frattini.

Esiste una vecchia malattia politica nazionale: preferire la poltrone romane a quelle di Bruxelles. È rimasta storica la figuraccia che facemmo con Franco Maria Malfatti che si dimise nel 1972 addirittura da presidente della Commissione europea, per venire a fare il ministro a Roma. Poi le cose sono cambiate, come ha dimostrato Romano Prodi.

Nei Balcani

Il segreto dell’attuale vicepremier è di aver appreso tanto in Europa, come si può notare ora alla Farnesina: è misurato e non vittimista, sa come si trattano le relazioni internazionali, conosce il linguaggio della diplomazia e non commette gaffe, cioè non straparla come fanno molti dei suoi colleghi, dimostrando consapevolezza del peso dell’Italia nel contesto sia europeo sia internazionale, e di conseguenza quanto si può spingere sui vari e complessi dossier.

Ci sono delle novità: nei Balcani ad esempio Roma ha ripreso un’iniziativa che la sta rimettendo al centro del difficile binomio serbo/kosovaro che attende da vent’anni una soluzione. Era tanto tempo che l’Italia non affacciava su tale quadrante, malgrado le richieste della nostra diplomazia.

Non si tratta solo di mediazione ma anche di presenza istituzionale ed economica, come si è visto dalle numerose imprese in visita a Belgrado. Contatti sono stati ripresi con i leader dell’area proprio nel momento in cui la stessa Unione europea ha bisogno del massimo sostegno politico per cercare di risolvere i contenziosi, incluso quello bosniaco.

Il piano Mattei

LAPRESSE

L’Italia ha riaperto il fronte africano: l’idea del “piano Mattei” include una rinnovata presenza nel Corno d’Africa dove siamo partner tradizionali. Sull’Africa in generale, e su quell’area in particolare, si sta riflettendo ad un possibile nuovo impulso che coniughi cooperazione allo sviluppo, commercio estero, settore energetico e politica.

Non si tratta di un programma semplice, anche per il fatto che viene spesso mescolato e confuso con la questione migratoria. L’errore di trasformare tutta la politica estera in politica migratoria è già stato commesso senza risultati.

Allo stesso modo va evitato di manipolare la politica estera al solo scopo della ricerca di fonti di energia. La Farnesina non deve farsi scippare le relazioni internazionali: sappiamo che in tempi fluidi come gli attuali l’esposizione estera del paese può avere molteplici convenienze ma presenta anche numerose trappole da evitare.

L’Africa fa politica

Il ministero degli Esteri è una macchina sofisticata, ben attrezzata e di buona qualità: in generale chi lo guida è accompagnato a non commettere errori. Da qualunque ministro ci si aspetta tuttavia la preservazione del perimetro delle competenze e l’impulso politico necessario.

Quali sono le sfide e i conseguenti i rischi per l’attuale governo? Innanzitutto – come detto – non cadere nelle ossessioni migratorie o energetiche: se l’interlocutore, chiunque sia, capisce che ci siamo messi con le spalle al muro, ci spingerà ancor più nell’angolo per approfittarne. La politica internazionale è spesso un gioco di sponda, dove occorre considerare più elementi contemporaneamente.

Con l’Africa va anche evitato il solito errore europeo: promettere “piani Marshall” per poi non mantenerli. Più che di quantità conta la qualità delle relazioni: gli africani sono da tempo alla ricerca di veri partenariati che permettano loro di influire sulle grandi questioni globali. Vogliono cioè essere ascoltati in maniera stabile e non relegati a temi come appunto le migrazioni. L’Africa fa politica e di conseguenza chiede politica.

Altri mondi

C’è anche l’Africa occidentale da tener presente, da dove proviene il flusso migratorio che sbocca in Libia, e dove opera la sfida jihadista che sta assumendo il controllo di intere aree. Ci sono poi altri quadranti molto delicati come quello del medio oriente e del Mediterraneo orientale in cui il nostro paese può giocare un rinnovato protagonismo.

La relazione con gli Accordi di Abramo (di cui potremmo chiedere di essere osservatori), le relazioni con la Turchia (sulla Libia ma non solo) o con l’Arabia Saudita che è in piena evoluzione: sono tutti temi da mettere in agenda.

Tenuto conto dei rapporti storici ed economici, sarebbe ora di rivedere le relazioni con la Siria e ridefinire, assieme alla Francia, una nuova politica su Tunisi e Beirut. Come si vede nel nostro orizzonte di interessi nazionali all’estero, non c’è soltanto la guerra in Ucraina. Un impegno davvero grande per il nostro ministro degli esteri. 

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