La strategia ben oliata della destra, populista o neofascista che sia, è puntuale e prevedibile, in ogni paese e continente dove si manifesta: conquista la maggioranza presentandosi come underdog o “anticasta” e poi, una volta al governo, deve riuscire a provare che il potere non l’ha cambiata, che non è né diventerà mai casta.

Per questo, parte del lavoro del governo sarà impiegata a riconfermare davanti al pubblico l’immutata e originaria identità: magari si abitano palazzi più suntuosi e si vestono abiti non proprio underdog, ma quel che conta è dire, in maniera convincente e urlata, che quei mutamenti sono irrilevanti, che non scalfiscono la lotta quotidiana contro quel nemico che, lamentato e castigato, è tuttavia utilissimo perché la sua persistenza è come energia adrenalinica.

«Gli avversari sono sempre un bene perché ti spingono a fare meglio» ha detto la presidente del Consiglio nel comizio conclusivo della festa del suo partito. Gli avversari sono utili, non legittimi. Sono utili, perché se non ci fossero lei dovrebbe parlare di quel che il suo governo non fa o fa male. Non vi è di che essere orgogliosi di questa Italia, e basta uscire dai confini patrii per toccare con mano l’insignificanza del nostro paese. Bastonare i nemici rende. Utili, non legittimi.

Un fatto tremendo è che Giorgia Meloni li menziona individualmente, per nome e cognome; non gli avversari politici semplicemente (il Pd, la Cgil), ma le singole persone che hanno la sfortuna di non pensarla come lei e di usare la loro voce per criticare il suo governo del fare. Il sistema è poco democratico e civile. Ci si deve attendere che la vita di chi dissente sia più difficile?

Brutta pagina quella dell’attacco diretto a Roberto Saviano e a Chiara Ferragni, un metodo di assalto alle persone che appartiene ad altri regimi e a un altro tempo. Demolire gli avversari da palazzo Chigi, gettando fango e discredito sulle persone, è quanto non avremmo voluto mai più vedere. Il governo che dichiara «poco legittime» le critiche fa parte di un passato che non passa mai. E non passa mai anche per un vezzo totalizzante che questa maggioranza e la sua leader mostrano in perfetta sintonia con la loro cultura politica: l’identificazione di partito e stato.

Sosteneva Hans Kelsen che il legame tra democrazia e libertà che i partiti suggellano può essere dimostrato proprio dai regimi autoritari, che non conoscono e non praticano una «netta separazione, caratteristica della democrazia, tra l’organizzazione dei partiti e l’organizzazione dello stato».

La festa di Atreju di Fratelli d’Italia è stata presentata dai suoi organizzatori come un evento «istituzionale». Paolo Corsini, direttore dell’Approfondimento Rai, ha parlato come funzionario Rai e come militante di partito, usando il «noi» partigiano per parlare della sua attività nel servizio pubblico televisivo. Alcuni commenti alla sua uscita sono stati penosi: è ipocrita criticarlo, si è letto, perché i partiti hanno da sempre lottizzato la Rai. Eppure quel ritegno antico a non parlare come militante mentre si coprivano incarichi in enti pubblici era un segno di civiltà, di attenzione all’arte della separazione, senza la quale il pluralismo politico è a rischio e partito e stato si confondono. È questa pulsione totalizzante che ci deve preoccupare, come se la distanza tra militanza politica e professione pubblica sia saltata e lo stato e le sue aziende siano luoghi posseduti e liberalmente usati da chi li usa a scopo di propaganda.

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