Domenica scorsa è andata in onda l’ultima puntata di Che tempo che fa, la trasmissione di Fabio Fazio su Rai3. «Non si può essere adatti a tutte le stagioni», aveva detto il conduttore subito dopo la notizia della sua uscita dall’emittente pubblica.

A ogni cambio di “stagione”, corrispondente al cambio del governo pro tempore, si pone il tema dell’adeguatezza di un servizio pubblico nelle mani della politica. Tema che va oltre l’abbandono della Rai da parte di questo o quel professionista e solleva più di una domanda. Cos’è “servizio pubblico”? Nel rendere tale servizio, ha senso che la Rai sia sottoposta al controllo della politica e si finanzi con il canone, ma al contempo operi secondo le logiche degli ascolti tipiche di una qualunque Tv commerciale, in concorrenza per l’acquisizione di spazi pubblicitari?

Sono necessari alcuni chiarimenti, perché lo status della Rai ha caratteristiche molto ambigue.

Canone Rai

Il canone è il più importante canale di finanziamento della Rai Radiotelevisione italiana S.p.A.. Si tratta di un obbligo fiscale fondato sulla detenzione di apparecchi atti o adattabili alla ricezione dei programmi televisivi e va pagato indipendentemente dall'uso del televisore o dalla scelta delle emittenti televisive.

L'origine del canone risale a un Regio decreto legge del 1938 (n. 246), che ne rappresenta ancora la base giuridica, ed è destinato all'ente incaricato di svolgere il servizio pubblico di radiodiffusione, cioè la Rai.

L’attuale contratto di servizio stabilisce che vi sia una contabilità distinta per gli introiti e le spese del servizio pubblico rispetto a introiti e spese connesse ad attività svolte in regime di concorrenza. La contabilità separata deve dimostrare che le risorse pubbliche siano destinate esclusivamente al finanziamento dell’attività di servizio pubblico.

Tale previsione rende palese la doppia natura della Rai: da un lato, concessionaria del servizio pubblico, dall’altro lato, emittente che opera in competizione con soggetti privati.

Il servizio pubblico

Il servizio pubblico è svolto in esclusiva dalla Rai per una durata decennale, e la concessione è stata rinnovata per dieci anni a decorrere dal 30 aprile 2017, alle condizioni e con le modalità stabilite dallo schema di convenzione annesso alla concessione.

La legge individua le attività che il servizio pubblico deve garantire: tra le altre, la diffusione di tutte le trasmissioni con copertura integrale del territorio nazionale; un numero adeguato di ore dedicate all'educazione, all'informazione, alla formazione, alla promozione culturale e altro. In base al contratto di servizio, la Rai è tenuta a riservare non meno del 70 per cento della programmazione annuale delle reti generaliste (80 per cento per la terza rete) a una serie di “generi”: informazione generale e approfondimenti (notiziari, programmi tematici ecc.); programmi di servizio (trasmissioni per lo sviluppo della collettività e dell’individuo ecc.); programmi culturali e di intrattenimento (trasmissioni a carattere culturale, programmi di conoscenza e di approfondimento; programmi di racconto del reale ecc.); informazione e programmi sportivi; programmi per minori; opere italiane ed europee.

Il servizio pubblico deve perseguire obiettivi come la promozione di «identità collettiva e senso civico», la valorizzazione del «sistema culturale» ecc..

La zona d’ombra del “servizio pubblico”?

Il contenuto del servizio pubblico, definito nel contratto di servizio, è tanto ampio quanto sfocato. Il contratto si limita a indicarne i “generi”, suddivisi in determinate quote di programmazione, ma non è agevole distinguere tra servizio pubblico e TV commerciale all’interno dei singoli generi, non essendo forniti criteri di individuazione.

Diversi programmi paiono qualificabili indifferentemente nell’una o nell’altra categoria, con una logica mista. Eppure, siccome gli introiti da canone rappresentano un “aiuto di stato”, ed è pertanto vietato convogliarli al di fuori del servizio pubblico, sarebbe importante qualificare puntualmente il contenuto di tale servizio.  

Da tempo la Commissione europea (2009/C 257/01) ha chiesto agli Stati membri di considerare come forma di best practice la separazione funzionale o strutturale – non solo contabile, come in Italia - del servizio pubblico radiotelevisivo dalle attività di natura commerciale, al fine di garantire trasparenza e rispetto della piena concorrenza. «La mera separazione contabile» - secondo l’Autorità Antitrust - «costituisce una soluzione poco incisiva per disciplinare il comportamento societario e garantire l'effettiva separazione delle attività della concessionaria da quelle svolte a titolo commerciale».  

Qual è la conseguenza della commistione fra servizio pubblico e TV commerciale? L’impossibilità di «assicurare che le risorse pubbliche siano utilizzate esclusivamente per l’assolvimento del servizio di natura pubblicistica e, dunque, che tale forma di finanziamento non vada ad alterare il normale gioco della concorrenza nel mercato della raccolta pubblicitaria» tra la varie reti, quelle pubbliche e quelle private.

Ma va pure detto che la Rai ha un limite di raccolta pubblicitaria fissata per legge in misura inferiore rispetto alle TV private, e anche questo incide sulla competizione televisiva.

Fazio e Che tempo che fa

LaPresse

Il programma di Fazio è un esempio di questa commistione. “Che tempo che fa” concorreva con altre trasmissioni nella medesima fascia oraria, secondo logiche di mercato, ma al contempo era servizio pubblico. Per coprire l’oneroso esborso sostenuto per il noto conduttore e la sua trasmissione, la Rai ha concentrato su di esso inserzioni pubblicitarie, per le quali ha un limite massimo, contando su alti ascolti e sui conseguenti introiti.

Cosa succede quando la scommessa di finanziare gli ingenti costi di un programma con la pubblicità non funziona, perché il programma non ottiene gli ascolti previsti?

Le minori entrate sono compensate con un maggior ricorso al canone, cioè a quanto versato dai cittadini, che quindi viene impiegato per pagare non solo il “servizio pubblico”, ma anche la fama del nome cui si affida tale servizio, in base a dinamiche di mercato. Ma i fondi con cui il servizio pubblico è finanziato non dovrebbero essere impiegati a fini commerciali, come detto.

Per completezza di informazione va precisato che nel 2019 il compenso di Fazio è stato giudicato regolare dalla Corte dei Conti, che ha archiviato l’inchiesta avviata per danno erariale.

Una Rai da riformare

Considerato che la Rai si comporta come gli altri operatori privati con cui è in concorrenza, con un limite pubblicitario più stretto rispetto ad essi, ma con il supporto del canone, e dato che tutto ciò crea una situazione ambigua, occorre chiedersi - e la domanda è retorica - se non vada riformata.

La Rai, oggi posseduta per la quasi totalità dal ministero dell’Economia, dovrebbe essere privatizzata. La TV commerciale andrebbe separata in via strutturale dal servizio pubblico, cioè in termini di assetti proprietari, profili organizzativi e modalità di gestione. Il servizio pubblico dovrebbe essere definito in modo puntuale nei suoi contenuti e poi messo a gara.

Conseguentemente sarebbero eliminati canone e tetto pubblicitario. Questa soluzione consentirebbe non solo di fare chiarezza tra le diverse “anime” della Rai, ma anche di spezzare il legame tra essa e i partiti, i cui effetti si vedono a ogni giro di nomine.

Giorgia Meloni, parlando della Rai, ha dichiarato di voler puntare su «un sistema meritocratico» e «liberare la cultura italiana da un intollerante sistema di potere, in cui non potevi lavorare se non ti dichiaravi di una certa parte politica».

Peccato Meloni non dica che ogni “parte politica” andrebbe messa fuori dalla Rai. Nessun governo ha perseguito tale obiettivo, nonostante esso sia stato talora declamato. Se i partiti non escono dalla Rai, certe dichiarazioni come quelle di Meloni, così come la sua esaltazione del criterio del merito, restano solo chiacchiere. Purtroppo, alle chiacchiere gli italiani sono ormai assuefatti.

© Riproduzione riservata