La Rai è una macchina ferma, e in perdita, che però continua a macinare nomine. L’allarme è stato lanciato dal ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che in audizione in commissione vigilanza Rai ha detto: «La struttura finanziaria è in peggioramento. Si può osservare un andamento in flessione dei ricavi complessivi indotto dal calo dei ricavi pubblicitari», -9 per cento dei ricavi nel primo semestre del 2020 rispetto all’anno precedente.

Nell’ultimo semestre la Rai è indebitata per 275 milioni di euro (rispetto ai 239 dell’anno precedente) e l'attesa per fine  anno è di una perdita di circa 130 milioni di euro, nonostante i quasi 2 miliardi incassati ogni anno dal canone in bolletta.

Per limitare il rosso, Gualtieri ha accolto la richiesta dell’azienda di riavere il 5 per cento del canone, attualmente trattenuto dallo Stato come previsto dalla legge di stabilità del 2015: 85 milioni di euro l’anno, che tornano nelle casse di viale Mazzini ma che comunque non basteranno a farla chiudere il bilancio in pari.

Solo qualche giorno prima dell’audizione di Gualtieri, tuttavia, l’amministratore delegato Fabrizio Salini ha avallato la nomina di 18 vicedirettori nelle tre reti generaliste (il minimo contrattuale è di 131 mila euro, ma lo stipendio di alcuni supera i 200 mila euro), «a cui si aggiungono 20 nuovi dirigenti con un minimo contrattuale di 98 mila euro», scrive il membro della commissione parlamentare di vigilanza  sulla Rai in quota Italia Viva, Michele Anzaldi.

Proprio queste nomine sono state lette come il sintomo di una situazione ormai ingestibile a viale Mazzini: un consiglio di amministrazione senza maggioranza e con i partiti di governo – Partito democratico e Movimento 5 Stelle – in lotta tra di loro; un’azienda che, nel vuoto di direzione della politica, non riesce né a sollevarsi né a rendersi autonoma.

La lotta nel cda

L’attuale consiglio di amministrazione della Rai è un caso unico nella storia dell’azienda. Nominato dal governo Lega-Cinque stelle, è rimasto immutato nonostante il cambio di partner di governo. Con il risultato che non esiste una maggioranza chiara ma ogni decisione è frutto di accordi singoli. In questa mancanza di direzione opera l’amministratore delegato Salini, ex direttore di la7 e prima vicepresidente dei canali di intrattenimento Fox in Italia e poi Sky.

La sua nomina è targata Movimento 5 Stelle, la Lega ha imposto il presidente Marcello Foa. A giugno 2021 il suo incarico dovrebbe concludersi naturalmente, permettendo dunque al governo di rimettere ordine a maggioranze e piano editoriale. Proprio questo, però, è l’epicentro dello scontro tra Pd e Movimento 5 Stelle.

I grillini, sostenuti dal premier Giuseppe Conte, vorrebbero prorogare il mandato al manager e lo stesso Salini avrebbe ricevuto rassicurazioni in merito: in giugno, infatti, Conte ha incontrato Salini per assicurargli il sostengo del governo per far quadrare i conti in rosso. A quell’incontro si sarebbe parlato anche della riforma della governance Rai e proprio questo sarebbe l’escamotage per prolungare la durata del mandato dei suoi vertici.

Se ne parla ormai da mesi e l’ultima proposta viene dal vicepresidente del Pd, Andrea Orlando. Il piano  depositato alla Camera prevede che venga affidata ad una Fondazione la proprietà «nonché la scelta delle strategie e dei vertici operativi» e che sia garante «dell’autonomia dal governo del servizio pubblico e della sua qualità».

L’intenzione sarebbe quella di ricalcare il modello Bbc, che era alla base della riforma Gentiloni del 2007: «La lottizzazione va di pari passo con l’instabilità del vertice aziendale. Oggi la Rai, più che in passato corre il rischio di una paralisi decisionale» e «un’azienda che non sia in grado di prendere rapide decisioni strategiche rischia di essere tagliata fuori da ogni competitività».

Con l’ipotesi di un cambio di questo tipo, la proroga di Salini sarebbe giustificabile con la logica del far nominare i vertici secondo le regole del nuovo assetto societario, dicono i Cinque stelle.

La legge è tutt’altro che pronta per essere approvata, quindi di proroga in proroga si arriverebbe con tutta probabilità al termine della legislatura e il Movimento conserverebbe intatto il suo controllo sulla Rai, senza doverlo spartire con l’attuale alleato di governo. Soprattutto in vista della prossima tornata elettorale, in cui la presenza televisiva pesa eccome.

Proprio contro questa ipotesi lavora il Partito democratico. L’insofferenza nei confronti di Salini va avanti da tempo e al Nazareno nessuno è disposto a sentir parlare di proroghe di mandato. «Il Pd giudica altamente fallimentare la gestione Salini, sia in termini economici ma soprattutto di garanzie sul plurarlismo. La Rai è tutt’ora a trazione sovranista e ribadiamo che il Pd non vede l’ora che l’ad termini il suo incarico per far uscire l’azienda dalla palude di questi mesi», si legge in una nota di giugno di Michele Bordo, vicepresidente del gruppo Pd alla Camera, dopo l’incontro tra Conte e Salini. A certificare lo sfratto di Salini è stato anche Gualtieri in audizione, quando ha detto che «Il prossimo Consiglio di amministrazione e i nuovi vertici si insedieranno entro le scadenze previste».

Eppure, i rischi ci sono. «Bisogna stare attenti: basta un qualsiasi rinvio per Covid che autorizzi il rinvio del deposito del bilancio Rai perché salti tutto. Oppure se alcuni passaggi formali, come la richiesta e la pubblicazione dei curriculum dei candidati da parte di Camera e Senato, non vengono fatti subito rischia di scattare la proroga. E poi magari un’altra ancora» avverte Anzaldi.

La Rai orfana della politica

Se lo scontro tra i partiti di maggioranza è aperto, la stessa tensione assume connotati molto diversi all’interno dell’azienda. «La politica in Rai era molto più presente vent’anni fa di come non sia oggi», dice un dirigente, «Ora vengono fatte nomine che nessuno sa come attribuire politicamente, mentre in passato nelle liste dei nomi c’era tra parentesi la sigla del partito».

Per un’azienda abituata a muoversi secondo un codice normativo parallelo scritto dalla politica, la debolezza dei partiti nel lottizzarla è stata l’innesco per il caos.

«Nella prima repubblica i partiti sceglievano anche i programmisti, ogni passaggio interno era governato dall’appartenenza politica, ma ora con questa politica così liquida ci si muove più secondo aree di provenienza che secondo il partito». Tradotto: ogni nomina ha come sponsor un’area dei partiti, ma questo ha mandato in tilt tutte le logiche consolidate. «Con il risultato che alcuni, rispondendo alle vecchie logiche, agiscono credendo di ingraziarsi questa o quella parte politica, e invece commettono errori e passi falsi», spiega un autore televisivo.

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L'occasione mancata

Il paradosso è che, per come viene descritto, questo momento di vuoto di potere della politica avrebbe potuto essere l’occasione perfetta per fare quella transizione a parole auspicata da tutti i partiti: far uscire la politica dalla Rai.

«Questa debolezza della politica poteva essere la chance per affrancarsi», invece «la verità è la Rai che non sa vivere senza partiti». Il minor controllo della politica avrebbe potuto essere un’opportunità, ma è stato vissuto come un’assenza.

Nessuno ha saputo inserirsi, prendendo in mano e modificando gli equilibri interni che hanno immobilizzato le scelte e bloccato le voci dissenzienti in Rai, e l’azienda pubblica ha continuato nella sua deriva, che si traduce prima di tutto in un bilancio in rosso.

«E’ stata una progressione: la situazione non è precipitata con Salini, ma lui è parte del problema», dice un dirigente. «La macchina aziendale ha mostrato di non avere risorse culturali e di idee innovative, il mercato si è complicato a causa della pandemia e Salini ha solo continuato a moltiplicare ruoli nel tentativo di compiacere la politica».

Calo della pubblicità

La pandemia ha prodotto un aumento di ascolti enorme, con circa 5 milioni di telespettatori in più, ma questo non ha generato alcun aumento di pubblicità, che anzi è diminuita.

Questa è la radice del problema e la causa non dipende dalla Rai ma dalle regole non scritte del mercato: al primo accenno di crisi e dunque davanti a una contrazione dei consumi, la pubblicità è il primo settore in cui si disinveste e l’ultimo in cui si torna a investire. Ed è esattamente quello che è successo: ora la Rai si attesta intorno ai 400 milioni di entrate pubblicitarie, quando ai tempi d’oro gli incassi erano di 1 miliardo e 100 milioni.

A fronte di un calo graduale ma prevedibile certificato anche dal bilancio, però, l’azienda non è corsa ai ripari con un’opera di ristrutturazione interna ma si è comportata come sempre: da un lato ha chiesto e ottenuto dalla politica di riavere il 5 per cento del canone che negli ultimi cinque anni è andato allo Stato; dall’altro l’amministratore delegato ha nominato nuovi dirigenti.

Dal punto di vista gestionale, invece, il palinsesto non ha subito alcuna variazione. Il caso più macroscopico riguarda la fascia di informazione serale: il programma con lo share maggiore è 8 e mezzo di Lilli Gruber, su La7, che oscilla tutte le sere intorno tra il 7 e il 9 per cento, con relativi introiti pubblicitari.

In quello spazio la rete che potrebbe competere è Rai 3, che però manda in onda la soap Un posto al sole. Anche sul fronte della razionalizzazione delle spese è un nulla di fatto. Anzi rischiano di aumentare.

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Nulla di fatto

Il settore con i costi più esorbitanti è quello delle sedi regionali della Rai: continua ad essercene una per ogni regione e per provincia autonoma, 22 in tutto, ognuna con un suo direttore e una sua piramide dirigenziale, per un totale di 660 giornalisti.

Tuttavia, alcune di queste sedi non hanno operatori, quindi lavorano appaltando il servizio all’esterno con un ulteriore aumento dei costi. Eppure, il settore rimane intoccato da anni.

Lo stesso avviene per le testate giornalistiche nazionali: Tg1, Tg2 e Tg3 sono autonome e impermeabili, a cui si aggiunge Rai News. Se sul fronte degli approfondimenti le diverse linee editoriali sono spiegabili, su quello della cronaca il risultato è che – per ogni evento di rilievo nazionale – le telecamere targate Rai assiepate sotto al palco sono almeno quattro se non cinque, quando si aggiunge anche il Tg locale. Con una duplicazione dei costi per ottenere lo stesso prodotto.

Si tratta di sprechi palesi che che avrebbero dovuto essere almeno parzialmente risolti con la creazione di una “newsroom”, ovvero una sorta di sala di regia unica divisa in aree funzionali come quella creata da Mediaset nel 2010 (in seguito alla chiusura di sei testate), che ha il compito di alimentare il canale all news, fornisce contenuti ai telegiornali e anche al web e distribuisce contenuti multipiattaforma. Anche questa è una riforma che non ha mai visto la luce.

Il progetto era di Luigi Gubitosi e avrebbe prodotto un risparmio annuo di 80 milioni di euro, ma è fermo da 6 anni e non è mai stato messo in pratica: si è preferito conservare un direttore per testata, con quattro vicedirettori e via via a scendere la piramide di comando.

Invece, il paradosso è che si sono aggiunti nuovi canali. Il contratto di servizio 2018-2022 prevedeva che la Rai attivasse un canale in inglese e uno istituzionale, che però non sono ancora mai partiti. Ma per entrambi sono già stati nominati i direttori, che percepiscono lo stipendio anche se non hanno nulla da dirigere.

Parallelamente, era stata annunciata e poi ritirata l’ipotesi di chiudere i canali Rai storia e Rai sport. Anche in questo caso, però, il vantaggio sarebbe stato pressoché inesistente dal punto di vista della riduzione dei costi: frequenze e studi di produzione sono della Rai e nessun licenziamento era previsto.

Perfino Autostrade protesta

Un ultimo caso emblematico, quello di Rai Isoradio. La radio avrebbe lo scopo di offrire musica e informazione lungo l’autostrada e dovrebbe diffondere il segnale in “isofrequenza”, ovvero con uno stesso segnale irradiato da più postazioni su una stessa frequenza, in modo che gli automobilisti non perdano mai la stazione. Invece, il canale si perde spesso, tanto che la società Autostrade per l’Italia – in lotta con il governo sulla concessione dopo la tragedia di Genova del 2018 – ha stretto un contratto di collaborazione con Rtl per il servizio informazioni sulla viabilità.

Nonostante questo e pur davanti alle richieste di far confluire Isoradio sotto Radio1 e il Giornale radio, Salini ha nominato una nuova direttrice il 30 ottobre scorso.

RaiPlay a metà

A pesare tra le critiche a Salini, infine, c’è la gestione di Rai Play. Doveva essere la risposta della Rai ai colossi dello streaming come Netflix e Prime, con l’occasione di valorizzare l’immenso archivio cinematografico dell’azienda.

Invece, è mancata la capacità di investire sia in termini di infrastruttura – la piattaforma spesso si blocca – che di idee, perché nessun prodotto esclusivo di qualche ambizione è stato pensato per lanciarla come vera alternativa, in un periodo come quello del lockdown in cui le piattaforme streaming sono le preferite dagli spettatori.

Il quadro compressivo è quello di una debolezza complessiva: la politica è incapace di riformare la Rai, i gangli dell’azienda non sono in grado di tagliare le corde che li legano ai partiti, anche quando si presenterebbe la possibilità.

In questo immobilismo la più grande azienda culturale del paese, con oltre 14 mila dipendenti, affonda nei suoi conti in rosso, che potranno venir ripianati solo dall’ennesima concessione del ministero dell’Economia.

La Rai di oggi è come il cavallo davanti alla sede di viale Mazzini: lasciato per la prima volta a briglia quasi sciolta, non è corso via ma è rimasto fermo a presidiare l’ingresso.

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