La sinistra aveva i posti, senza fare più cultura, ora dovrà riprendere a fare cultura, senza avere più i posti». Così Marco Damilano in un editoriale su questo giornale che merita di non cadere nel vuoto.

La domanda potrebbe anche porsi così: cosa intendiamo per “fare cultura”? Per un verso, difficile negarlo, è anche una questione di strumenti, nel senso proprio di luoghi, spazi, occasioni dove l’esercizio del pensiero incontra il discorso pubblico e l’agire politico. In un passato neppure tanto remoto luoghi e spazi di quel genere sono esistiti e hanno operato talvolta come avanguardie, cassa di risonanza, persino incubatori di movimenti abili a condizionare indirizzi e scelte di partiti ben più strutturati di ora. Parliamo di riviste, giornali di partito, case editrici, romanzi e saggi dotati di una specifica carica innovativa.

Qualche anno fa Giancarlo Ferretti e Stefano Guerrero in una bellissima Storia dell’informazione letteraria in Italia dalla terza pagina a Internet diverse tracce di quella parabola la ricostruirono. Per dire, Gli Indifferenti di Moravia, pubblicato nel 1929, produsse scandalo da subito, il che favorì il successo commerciale con un caso che da letterario si fece politico e di costume dividendo il campo tra chi giudicava «non fascista l’indifferenza, e chi giudicata fascista la messa a nudo del mondo borghese». In quella stessa miniera di episodi Ferretti-Guerrero recuperavano una statistica a modo suo illuminante.

Spiegavano come solo nel biennio 1945-1946 i titoli della saggistica superarono in percentuale quelli della narrativa. Parliamo di scienze politiche sociali ed economiche, religione e filosofia, storia e scienze giuridiche, a conferma del bisogno insopprimibile di “tornare a pensare” dopo che per vent’anni il fascismo aveva spento la luce nel paese. Voleva dire riscoprire quanto fosse avanzata una ricerca di nuovi ancoraggi capaci di immaginare il tempo storico a venire chiudendo per sempre la pagina più buia del nostro Novecento.

Classici riscoperti

Si trattò di anni fruttuosi con una riscoperta dei “classici” del marxismo, del socialismo, del liberalismo. Da lì il contributo di intellettuali e politici cattolici, azionisti, socialisti o comunisti. Da lì i testi del pensiero religioso non ufficiale e «i dibattiti su passato e presente, su letterato e letteratura nel Ventennio e i loro compiti attuali, sull’autosufficienza e l’impegno» con una mescolanza di «letteratura, arti figurative, architettura, teatro, musica, cinema». La televisione sarebbe arrivata qualche anno più tardi, ma con un impatto destinato a imporsi nei decenni successivi. In quel contesto anche i giornali si facevano palestre di impegno con una sorta di giornalismo militante.

Vittorini e Calvino erano impegnati nella redazione milanese e torinese dell’Unità. Eugenio Montale dal 1948 sul Corriere della Sera scriveva critiche letterarie e non solo. Ancora Calvino insieme a Giorgio Caproni si era dedicato a inchieste sulle borgate romane per Il Politecnico mentre Vasco Pratolini seguiva il giro d’Italia per Paese Sera. Era un intreccio costante di politica e cultura in grado di superare la frattura tra “le due culture”, quella dell’élite e quella popolare, ampliando il perimetro di lettura e conoscenze.

C’è chi lo ha definito un progetto di “cultura unitaria e democratica” tesa a superare rigide gerarchie tra le discipline come tra le diverse classi sociali in una prospettiva formativa più che pedagogica, insomma divulgativa in senso letterale.

Per molti versi il neorealismo si inserisce dentro quello stesso solco partorendo su carta o schermo alcuni dei nostri più grandi capolavori. Nonostante tutto le due culture continuarono però a riprodursi. Oggi, il settimanale edito da Rizzoli, nel suo impianto rigorosamente reazionario vendeva mezzo milione di copie che potevano sfiorare le ottocentomila in occasione del matrimonio sfarzoso di qualche testa coronata (corsi e ricorsi storici). Viceversa Il Mondo, storico periodico di politica e letteratura diretto da Mario Pannunzio di copie ne vendeva sì e no tra quindici e trentamila. Eppure tra le sue firme comparivano Salvemini e Scalfari, Arrigo Benedetti, Antonio Cederna ed Ernesto Rossi mentre la critica cinematografica era affidata a Ennio Flaiano.

Sono gli anni in cui l’Unità vende trecentomila copie in mezzo alla settimana destinate a raddoppiare con la diffusione domenicale, piazza per piazza e casa per casa. Su quella testata le terze pagine di Roma e Milano, dirette da Pietro Ingrao nella capitale e Davide Lajolo al nord, annoveravano collaboratori del calibro di Antonio Banfi, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Massimo Bontempelli, Rodari e Guttuso, Pavese e Annamaria Ortese, Umberto Saba e Quasimodo.

Assenza di strumenti

Bene, ma perché questo excursus per altro parziale e limitato a un paio di decenni o poco meno? Perché la ragione ultima della provocazione di Marco Damilano – una sinistra delle poltrone senza più la capacità di produrre cultura – deve per forza fare i conti con un’assenza di strumenti e spazi, ma assieme a quello con un deficit persino più drammatico di volontà politica a cogliere nel mondo reale, nella società fuori dalle istituzioni, quella linfa rappresentata da donne e uomini che nei trent’anni alle spalle (e trent’anni sono un tempo storico) hanno continuato a pensare. A scrivere e pensare.

Perché mai hanno smesso di “cercare ancora” come ammoniva Claudio Napoleoni pochi anni prima di andarsene. In sintesi, siamo rimasti prigionieri e vittime, la sinistra è rimasta prigioniera e vittima, di un presentismo incapace di cogliere complessità e profondità di un mondo impossibile da inchiodare al passato? Sì, credo che in buona misura sia quanto è accaduto, ma l’avere considerato l’occupazione dei posti, delle “poltrone”, la priorità da preservare a garanzia di consenso e potere ha finito col distrarre la mente, le menti, da un’azione di ascolto e scoperta di nuovi accessi e competenze frutto da sempre di una cultura meno organica al potere e anche, sia detto senza polemica, dell’infinito elenco di talk televisivi, mattutini, pomeridiani e notturni.

La stagione appena avviata col tentativo scomposto della destra estrema di ridefinire i canoni dell’egemonia culturale (sic) può divenire occasione per colmare questo vuoto? Sperarlo è il minimo, agire di conseguenza un dovere per quanti, e non sono pochi, continuano a credere che un “Quaderno” di Gramsci o un discorso di Sturzo valgano almeno quanto la vice direzione di un Tg. E allora, come si sarebbe detto un tempo, se la provocazione su “poltrone e cultura” ha un senso, e un senso lo ha, rimbocchiamoci le maniche e ripartiamo dai fondamentali fosse solo perché il mondo non si ferma a Viale Mazzini.

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