In casa Lega il clima si è rasserenato. Dopo mesi in cui via Bellerio era stata infestata dal fantasma di Fratelli d’Italia, ora l’ansia sembra essere progressivamente calata. Grazie alla buona vittoria in Friuli-Venezia Giulia, scontata con Massimiliano Fedriga ma con una punta di felicità in più visto il risultato sotto le aspettative del partito di Giorgia Meloni. Ma anche grazie alla tornata di nomine nelle società partecipate pubbliche.

Il consiglio federale della Lega della scorsa settimana ha infatti preso atto del «brillante risultato alle regionali del Friuli-Venezia Giulia», che ha offerto buone ragioni a Salvini per esultare. La prima è ovviamente l’elezione con oltre il 60 per cento di Fedriga, ma il risultato va letto nella sua interezza, spiegano fonti di via Bellerio. Innanzitutto, Fedriga non è diventato il nuovo Zaia: la sua lista personale ha raggiunto un buon 17 per cento ma è rimasta sotto quella della Lega, che si è attestata al 19.

Poco male se, sommata, fosse la percentuale della Lega di cinque anni fa: il fatto che le percentuali bulgare di Zaia in Veneto (con la sua lista personale al 44 per cento) non si siano viste in Friuli è stato il miglior modo per mettere un freno all’ipotesi – comunque considerata improbabile dai fedelissimi di Salvini – di un Fedriga presto lanciato alla guida del partito.

Inoltre, il voto regionale ha registrato la netta flessione di Fratelli d’Italia, che è rimasto di un punto percentuale sotto la Lega: uno stop di fatto all’effetto Meloni che ha fatto saltare ogni equilibrio nella Lombardia di Attilio Fontana e la conferma che la Lega, al nord, può ricominciare la scalata e non è condannata al vassallaggio a FdI.

«Tutti fattori che consolidano la leadership di Salvini» è la conclusione che trae uno dei componenti del consiglio federale. Con la prospettiva di un ritorno a fare politica sui propri temi storici. La settimana che comincia, infatti, è quella della conversione del dl Cutro e la Lega potrà tornare a battere sull’immigrazione. Poi sarà il momento di tornare sul dossier autonomia, con la proposta del ministro Roberto Calderoli da mettere a terra e «ritenuta fondamentale da Sud a Nord».

A sostenere il rilancio del partito è anche la ritrovata sinergia tra Salvini e il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, fresco di ritorno da un impegnativo viaggio ufficiale negli Stati Uniti. A sancirla, l’esito della tornata di nomine appena conclusa.

Il tandem

Lo spin che è arrivato dalla Lega è che il leader Matteo Salvini ha espresso «grande soddisfazione per le nomine dei colossi di stato». Eppure c’è del vero: nel partito l’umore è decisamente alto, perché c’è la consapevolezza che aver conquistato Enel, la presidenza di Monte dei Paschi e Terna ma anche molti posti chiave nei vari consigli di amministrazione sia un buon bottino.

Soprattutto visto che la partita per i posti ai vertici delle aziende pubbliche aveva inizialmente preso una piega nefasta, quando sembrava che la premier volesse arrivare agli sgoccioli della scadenza per poi tentare il colpo di mano e occupare tutti i posti disponibili, senza dividerli con gli alleati.

Ora che i posti sono stati assegnati, è il momento dei bilanci interni e la consapevolezza è che il tandem tra il segretario Salvini e il ministro Giorgetti, abbia funzionato. Entrambi hanno giocato il loro ruolo: il primo come pungolo, il secondo come cinghia di trasmissione con la premier Meloni.

Soddisfazione arriva anche dall’entourage di Giorgetti, da cui filtra il fatto che con il segretario ci sia stato e continui un contatto costante e «rapporti ottimi». Chi nel partito è più scettico sulle capacità del ministro dell’Economia lo taccia di «essersi come sempre comportato da democristiano, giocando due parti in commedia ma senza metterci mai la faccia».

Tradotto: Giorgetti sarebbe rimasto defilato e mai davvero in trincea per difendere gli interessi del suo partito nella spartizione, con la giustificazione formale di un impegno già programmato in Usa a farne mancare la presenza al cdm che ha licenziato le nomine.

Gli uomini più vicini al ministro, invece, ribattono che il ruolo di Giorgetti sia invece stato determinante nello smuovere Meloni: umiliarlo, non concedendo nulla alla Lega con in più la beffa di un decreto di nomine sulla carta intestata del ministero dell’Economia, avrebbe voluto dire perderne l’utile sponda. Invece, la premier avrebbe capito di aver bisogno di un solido pontiere nei rapporti con il bizzoso Salvini, soprattutto visto che l’esito del voto in Friuli è stato letto e analizzato anche da FdI. E, per quanto si tratti di una regione non determinante vista la specificità territoriale, un campanello d’allarme è suonato.

Proprio questa concomitanza di fattori avrebbe portato alla resa su Enel – il secondo colosso dopo l’Eni sia per volume economico che per strategicità – con la nomina ad amministratore delegato di Flavio Cattaneo, amico personale di Salvini. Pazienza se a saltare sia stato uno dei primi manager a legarsi a FdI e considerati in ascesa come Stefano Donnarumma.

Poi, però, toccherà di nuovo a Meloni incassare il sostegno di Giorgetti nel garantire che la Lega non faccia fughe in avanti – dal Pnrr al dossier sui migranti dopo la problematica gestione del ministro Matteo Piantedosi – e dimostri concretamente quel che Salvini anche ieri ha ripetuto in pubblico: «La maggioranza è coesa e lavora in totale accordo».

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