Tutti, e tutte, con Mario Draghi. Non era mai successo neanche sull’emergenza della pandemia. E invece dare del «dittatore» a Recep Tayyip Erdogan ha fatto il miracolo nella politica italiana. All’indomani della conferenza stampa in cui il presidente usa parole mai pronunciate da un premier contro il presidente turco, la diplomazia di Ankara convoca l’ambasciatore italiano e reclama a gran voce scuse ufficiali. Ma il parlamento si schiera con Draghi. A partire dal Pd, il più pronto di riflessi. Lia Quartapelle, responsabile esteri, parla di «ora della verità»: «Draghi ha detto come stanno le cose. Erdogan reprime la stampa e la libertà accademica, arresta i parlamentari e destituisce i sindaci». La destra applaude ma con motivazioni opposte.

Giorgia Meloni, dall’opposizione, si dichiara soddisfatta perché legge la dichiarazione del premier come «un primo passo per arginare l’espansionismo politico e culturale del regime islamista di Ankara» e per chiedere all’Unione «di ritirare ad Ankara lo status di paese candidato». Applaude anche il leghista Matteo Salvini, che strafà e convoca un sit in sotto l’ambasciata turca. L’iniziativa viene però prudentemente sconvocata. Problemi organizzativi, la motivazione ufficiale. In realtà la crisi diplomatica ieri era in pieno corso e non era il caso di aggiungere altre tensioni. Il pentastellato Gianluca Ferrara chiede di bloccare «ogni fornitura di armamenti italiani verso la Turchia».

Rilancia Nicola Fratoianni, dalla sinistra all’opposizione: il governo convochi alla Farnesina l’ambasciatore della Turchia «per dire con chiarezza che consideriamo inaccettabili le offese verso le donne, gli arresti illegali degli oppositori del dittatore Erdogan, i bombardamenti dei villaggi curdi con tantissime vittime civili». I curdi, vittime di persecuzioni senza fine in Turchia, ringraziano: «Quello che ha detto il premier italiano è l’idea di tutti gli europei. Tutti sanno chi è Erdogan, ma non vogliono dirlo apertamente. Per mantenere delle relazioni, si usa sempre un linguaggio diplomatico nei suoi confronti. È un dittatore, diventato anche fascista e quello che ha detto Draghi è quello che pensiamo anche noi», dice Yilmaz Orkan, dell’ufficio informazione del Kurdistan in Italia.

Dal governo bocche cucite, parla solo il sottosegretario all’Interno Ivan Scalfarotto per rispondere alla provocazione della diplomazia turca che dà a Draghi del premier «nominato» e non eletto da un voto popolare (del resto in Italia la democrazia parlamentare funziona così), a differenza di Erdogan: «Anche alcune tra le peggiori dittature sono nate con regolari elezioni, la storia ce lo insegna».

Silenzio e Realpolitik

A palazzo Chigi viene ostentata calma. Già il 24 marzo scorso al senato il premier aveva affrontato il dossier Turchia: «Ho esaminato con il presidente Erdogan l’importanza di evitare iniziative divisive e l’esigenza di rispettare i diritti umani. Aiutateci ad aiutarvi». La domanda se a Draghi la parola «dittatore» sia sfuggita, o se era meditata, non trova risposta. Ma viene fatta notare la lettera della sua dichiarazione nella conferenza stampa. Dopo la solidarietà per «l’umiliazione» inflitta a Ursula von der Leyen, rimasta senza sedia nel summit di Ankara, il premier esprime una considerazione: «Con questi, chiamiamoli per quel che sono, dittatori, di cui però si ha bisogno, uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute, di opinioni, di comportamenti, di visioni della società. E deve essere pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio paese». Un principio di Realpolitik che copre l’accordo sui migranti tanto utile all’Europa; e anche il fatto che l’Italia è fra i principali partner economici della Turchia. Ma certo anche una reazione allo sgarbo di Erdogan, in qualche misura a nome delle istituzioni europee fino a ieri balbettanti sul «sofagate».

Da Palazzo Chigi comunque non arrivano scuse ufficiali né ufficiose. La Farnesina ha messo in moto la diplomazia per chiudere la questione. Del resto Draghi ha fra i suoi più stretti collaboratori l’ambasciatore Luigi Mattiolo, suo consigliere diplomatico, per anni capo missione presso Ankara e grande esperto della politica turca.

La vicenda non può non essere un passaggio dell’incontro fra Draghi e il commissario Paolo Gentiloni. Da Bruxelles ieri sono arrivate reazioni diverse. Cauta quella del portavoce della commissione europea: «La Turchia è un paese con un parlamento e un presidente eletto, verso il quale abbiamo una serie di preoccupazioni su alcuni temi come la libertà di espressione, i diritti fondamentali» ma «non è compito dell’Unione qualificare un sistema o una persona». In realtà i media europei si sono mossi a favore di Draghi. E il presidente del Ppe Manfred Weber si è solidamente piazzato al suo fianco: «Sotto la guida di Erdogan la Turchia si è allontanata dallo stato di diritto, dalla democrazia e dalle libertà fondamentali nell’ultimo decennio. Siamo categoricamente contro una prospettiva di adesione della Turchia all’Ue».

Le richieste di dimissioni

A Bruxelles la questione si intreccia all’episodio del divano. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, accusato ormai da tutti di non aver saputo o voluto reagire allo sgarbo di Erdogan contro von der Leyen, ha ammesso a una tv belga di aver sbagliato: «Ho rivisto la scena 150 volte nella mia testa, e vorrei poter tornare indietro». Scuse ufficiali però ancora non sono arrivate. Michel ha giurato di aver provato a chiamare la presidente senza riuscirci. Ma qualche gesto di contrizione dovrà farlo se vuole restare al suo posto. Martedì prossimo l’ufficio di presidenza dell’europarlamento deciderà se convocare una plenaria sul caso. Sulla richiesta di dimissioni partita da un gruppo di eurodeputati italiani del gruppo S&D (primi firmatari Smeriglio, Bartolo, Calenda e Gualmini) è arrivata la firma del capodelegazione Brando Benifei, segno di un ok partito anche da Roma. E ora piovono firme anche da altre delegazioni nazionali.

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