Meglio guardarsi dagli alleati – Piero Ignazi

Il governo Meloni potrebbe navigare in acque tranquille. Gli avversari sono troppo deboli, confusi e divisi. I problemi più seri vengono dai suoi alleati. Come sempre, del resto. La destra di governo non è mai stata messa in crisi da un attacco frontale della sinistra. In certi momenti l’opposizione ha potuto frenarla e condizionarla, pensiamo alla grande manifestazione della Cgil nel marzo del 2002. Ma non ribaltare il tavolo per mandarla a casa. In tutte le occasioni in cui un governo di destra – vale a dire un governo Berlusconi – è caduto, sono stati i suoi componenti a defezionare. Nel 1994 Bossi e Fini staccarono la spina, nel 2010 Berlusconi si salvò per un soffio dall’assalto dei finiani di Futuro e libertà, nel 2011 cadde per lo sfilacciamento della sua maggioranza e una pressione internazionale fortissima.

Basti ricordare il titolo a tutta pagina dell’autorevole Financial Times del 4 novembre, “In God’s name, go!” In queste ultime settimane sono emerse le prime avvisaglie di un anno in salita. Il cambio di clima lo ha palesato per primo Matteo Salvini. Il leader leghista, intenzionato a recuperare consensi, ha innestato una marcia radicalizzante sui suoi temi prediletti: immigrazione, sicurezza e Unione europea. Proprio sull’Ue ha ottenuto il primo, significativo successo impedendo, anche contro il suo ministro dell’Economia, la ratifica del Mes. Il successo in realtà è doppio, perché, forzando Fratelli d’Italia a seguirlo nell’opposizione al Mes, ha screziato l’immagine di Meloni in Europa, uno dei suo asset migliori.

La premier si ritrova più isolata all’estero e, di conseguenza, indebolita in casa. In ogni alleanza, però, a uno sbilanciamento verso un polo consegue un irrigidimento dell’altro. Forza Italia comincia, seppur timidamente, a puntare i piedi per mostrare che esiste ancora. Non ha la forza di ricentrare l’azione del governo, e si contenta, per ora, di limitare i danni, e far buon viso alle piccole concessioni che la premier elargisce. Però anche da quelle file salgono le insofferenze.

Mentre la trazione verso destra della Lega trova sponde all’interno di FdI perché c’è un chiaro idem sentire su tantissimi temi, FI rimane isolata, incapace di incidere, anche perché troppo incerta e divisa sul da farsi: pesa la pluriennale inerzia progettuale, in quanto bastava la parola del leader supremo. Meloni dovrà guardarsi da due tendenze contrapposte: un netto rafforzamento della Lega e una crisi verticale di FI. In un caso o nell’altro – o, ancora peggio, se si verificassero entrambi – il governo ne risentirà. Ma i due junior partner della maggioranza faranno di tutto per marcare la loro posizione e distinguersi ben prima delle europee.

Le previsioni possono avverarsi – Marco Damilano

Giorgia Meloni si sta riprendendo dal suo malanno, ma non deve sottovalutare i sintomi della sindrome Egdl, che sta per Ernesto Galli della Loggia, implacabile nell’abbattersi sul premier di turno sotto forma di editoriale sul Corriere della Sera, spesso anticipando di qualche tempo la crisi. Meloni deve «spezzare un legame con il passato che ogni giorno si rivela un vincolo per il presente», ha scritto Galli della Loggia il 29 dicembre attaccando l’inner circle intorno alla premier. Una simile critica, con parole quasi identiche, era piombata già addosso a Silvio Berlusconi e poi a Matteo Renzi. «Ciò che non è riuscito troppo bene è il passaggio dal Renzi outsider fiorentino al Renzi italiano di Palazzo Chigi», scrisse lo storico il 21 giugno 2015.

«Sarebbe stato necessario un salto di qualità tra i due Renzi. Un salto di qualità che non sembra esserci stato». Quello che rischia Meloni è che le profezie si avverino. I partiti personali, di cui parlava già anni fa Mauro Calise, sono spariti. Ci sono le leadership personali, ma senza i partiti. Leader che sognano istituzioni a immagine e somiglianza del capo, ma non riescono a compiere un movimento più strategico: partiti con forti leadership, ma ancora in grado di fare da antenne nella società, una rete di funzionari che possano lavorare in modo indipendente dalle esigenze di consenso della premier. Tutto questo richiede fatica.

Centralizzare il potere è più facile. Ma anche più pericoloso, perché il cerchio magico che sembra proteggere poi ti soffoca, ti spinge all’errore, nel baratro. Specie se i suggeritori di Palazzo Chigi, i Tigellini d’Italia, si mostrano tronfi ma si rivelano del tutto inadeguati al compito. Vedi il foglio sul Mes sventolato alla Camera contro Conte che qualche consigliere solerte le aveva consegnato promettendo: vedrai, farai scacco matto, ma sciaguratamente per lei era il documento sbagliato e la regina ha dato scacco a sé stessa. I ministri di famiglia che prendono i treni sbagliati e quelli fuori controllo che straparlano. L’eccesso di zelo e di adulazione di chi ha titolato su Meloni uomo dell’anno: con simili sostenitori si rimpiangono i nemici.

Per questo a Meloni converrebbe intrecciare una forma di rapporto almeno con una delle opposizioni, la più strutturata, il Pd di Elly Schlein. Sarà fondamentale quando, terminata la propaganda elettorale, Meloni sarà obbligata a trattare una casella di peso nella futura Commissione europea con popolari, liberali, e con i socialisti, la famiglia di cui il Pd costituisce un pezzo importante. La politica della vendetta, invece, scatena le tifoserie, ma alla lunga logora chi la fa.

È ora di uscire dall’ambiguità – Giorgia Serughetti

Il 2024 sarà, per Giorgia Meloni, un anno di scelte difficili. L’anno in cui dovrà far capire quale figura di leader vuole essere, per quale genere di partito, che idea di società ha in mente e quale “popolo” vuole rappresentare. Il primo anno di governo della maggioranza di destra-centro è stato segnato da forti ambivalenze, non solo per l’eterogeneità delle forze che la compongono, ma anche per il profilo bifronte della stessa presidente del Consiglio che, stretta tra una storia inequivocabilmente postfascista e il desiderio di proporsi come guida di una destra “conservatrice”, ha preso decisioni più spesso tattiche che strategiche, adatte a offrire il volto più adeguato alle convenienze del momento.

In Italia, segmenti sempre più larghi dell’opinione pubblica credono – o fanno posa di credere – alla nuova Meloni: non più anti sistema, non più antieuropeista. In Europa, il gruppo dei Conservatori e riformisti dialoga su molti temi con il Partito popolare. In un articolo pubblicato dalla rivista il Mulino, i politologi Edoardo Bressanelli e Margherita de Candia mostrano come nell’ultimo quinquennio all’Europarlamento l’Ecr abbia votato in linea con la maggioranza in sette casi su dieci. La sintonia è visibile specialmente in politica estera e di bilancio.

Il quadro cambia, però, se si guarda a materie identitarie come le politiche di genere, migratorie e ambientali, o a temi come il rispetto dei valori dell’Unione e lo stato di diritto. Qui l’orientamento resta quello tipico della destra radicale, ben rappresentata dal partito polacco Diritto e giustizia che siede, come delegazione più numerosa, nello stesso gruppo.

Su queste materie, le differenze con i partiti “sovranisti” del gruppo Identità e democrazia – ovvero con Matteo Salvini, Marine Le Pen, Geert Wilders o Tino Chrupalla di Alternative für Deutschland – si attenuano fino a scomparire.

Se davvero Giorgia Meloni – la stessa Meloni che ancora alla vigilia delle elezioni del 2022 minacciava l’Europa in caso di vittoria, «è finita la pacchia» – volesse traghettare Fratelli d’Italia e i Conservatori su posizioni post sovraniste, dovrebbe dunque prendere le distanze dalla destra radicale soprattutto sui temi identitari.

Un buon banco di prova saranno le posizioni su famiglia, diritti delle donne, diritti Lgbtq, su cui le diverse destre oggi convergono in senso reazionario. Uno sforzo di chiarezza è dovuto. Non per ragioni di convenienza – l’ambivalenza può pagare, almeno nel breve periodo – ma di coerenza e responsabilità verso il proprio elettorato e il paese intero.

L’affidabilità in politica estera – Mario Giro

Cosa ci possiamo aspettare dalla politica estera nel 2024? Finora per la presidente del Consiglio lo scenario internazionale si è dimostrato piuttosto positivo: relazioni atlantiche stabili; rapporti europei nel solco della continuità con piglio più assertivo; dialogo mediterraneo e tentativi di partnership sulle migrazioni; piano Mattei per l’area subsahariana ancora in via di elaborazione. A ciò si aggiunga il ritorno da protagonista dell’Italia nell’area dei Balcani su impulso di Antonio Tajani. Da un punto di vista reputazionale (molto importante in un’epoca in cui la fiducia è merce rara) l’Italia non ha perso colpi, come dimostrato dai giudizi (sempre politici) delle agenzie di rating. Resta intatto il rischio più grande: l’enorme debito che grava sul nostro futuro e che ci viene garantito sostanzialmente da Germania e Francia.

La “questione Mes” si spiega col timore – presente nelle cancellerie europee che contano – che tornino in superficie le antiche tentazioni (latenti in due dei tre partner di governo) contro l’euro e l’architettura economica della Ue. Il rischio per la premier è di non apparire abbastanza ferma su questo punto. Mantenere a tutti i costi un buon rapporto con l’asse franco-tedesco significa essere considerati affidabili. In sintesi: in un mondo caotico, nessuno deve pensare che l’Italia sia imprevedibile. Per contare a livello internazionale dobbiamo dimostrare lealtà agli Stati Uniti, ma anche mantenere il nostro status in Europa.

A questo punto si aprono nuovi scenari, innanzi tutto le guerre in atto in Ucraina e Medio Oriente. La presidente può tentare (ardue) mediazioni proprio perché in molti si aspettano dall’Italia qualcosa del genere (previo consenso Usa): è un ruolo che ci si addice. Ciò offrirebbe al nostro paese l’opportunità di una posizione non neutrale, ma mediativa, che, oltre a proteggerci, ci darebbe l’opportunità di superare lo schiacciamento attuale che restringe gli spazi di manovra. L’assenza di Europa in molti scacchieri è dovuta a tale mancanza d’iniziativa. Ci vuole un’Italia che non si limiti ad attendere solo decisioni o elezioni altrui: a essere più generosi ci si guadagna. Si può fare come prevenzione in quadranti complicati tipo Armenia, Pakistan o Sudan. Si tratta di un impegno diplomatico non appariscente e che mal si coniuga con il personalismo in voga oggi: per tali azioni la premier dovrebbe fidarsi e affidarsi, puntando sulle risorse diplomatiche e di mediazione del paese. Infine, malgrado sia una priorità del suo programma, è consigliabile non restare attanagliati a una visione di politica estera legata solo alle migrazioni.

Il rischio dei conti pubblici – Alessandro Penati

Il principale rischio per il governo Meloni è la tenuta dei conti pubblici. L’incapacità di crescere è ormai un dato strutturale dell’economia italiana: siamo l’unico paese che negli ultimi 20 anni ha visto la stagnazione del reddito pro capite (a potere di acquisto e cambio costanti) rispetto al +18 per cento dell’Eurozona e al +28 degli Stati Uniti. L’impatto del Pnrr è transitorio e non dovrebbe illudere. Il costo degli interessi rimarrà elevato anche perché rifletterà il premio per rischio che grava sui Btp. E da giugno si ridurranno gli acquisti della Bce, che termineranno a fine 2024. In queste condizioni, la sostenibilità del debito pubblico è a rischio, e la possibilità di una crisi finanziaria sempre dietro l’angolo. Aver sottoscritto il nuovo Patto di stabilità non garantisce nulla, perché poi i vincoli bisogna rispettarli e c’è sempre il rischio di uno shock esogeno. La conflittualità con Bruxelles, culminata col no al Mes, non aiuta la nostra credibilità.

La priorità del governo dovrebbe essere un avanzo primario significativo da mantenere nel tempo, unica garanzia di sostenibilità del debito. Un avanzo da raggiungere però evitando gli effetti distorsivi sulla crescita, seconda priorità per il governo. Vanno penalizzate le spese che mirano al consenso, come il bonus casa, sciaguratamente in parte rinnovato. L’efficienza della pubblica amministrazione e il controllo sull’uso delle risorse degli enti locali sarebbero riforme a costo zero. Massima attenzione ai capitoli di spesa, come sanità e istruzione, che hanno un effetto positivo indiretto sulla produttività. Nessuna di queste sembra essere nei piani del governo.

Una riforma organica del welfare per tutelare le fasce più deboli e l’introduzione del salario minimo aiuterebbero a sostenere i consumi, senza i quali non si cresce. La riforma fiscale del governo lascia intatta la giungla di deduzioni, detrazioni, sussidi, agevolazioni che andrebbe disboscata, per abbassare realmente le tasse a tutti; oltre a segmentare i redditi, con la flat tax per gli autonomi. Anche la tassazione sul capitale va semplificata per incentivare gli investimenti, e ridurre l’elusione, invece di facilitarla con il concordato preventivo biennale.

Per la crescita serve promuovere la concorrenza, non difendere tassisti e balneari. Ed è ora che lo Stato, avendo il golden power, valuti la cessione dell’ingente capitale pubblico immobilizzato nelle partecipazioni, per acquisire risorse da destinare agli investimenti in settori ad alta tecnologia, cruciali per la crescita.

La posta in gioco per i democratici – Nadia Urbinati

Che cosa augurarci come democratici italiani ed europei per l’anno che verrà? Il primo augurio è di mantenere saldo il principio di realtà, che non è amico di chi ama i “sogni dei visionari”, ma neppure di chi rinuncia a tener saldi i princìpi guida di una conoscenza critica. I realisti kantiani sanno ispirarsi a princìpi senza lasciare la terra e librarsi nel cielo dell’impossibile. Tenere ferma la barra sui princìpi del vivere politico libero significa comprendere il valore della democrazia costituzionale basata sulla centralità del legislatore collettivo, il parlamento.

La chiarezza sui princìpi della democrazia rappresentativa ci deve far diffidare delle sirene autoritarie che vestono i panni della fata turchina, che ci promette di avvicinare il governo ai cittadini facendoli votare il capo, come se la sovranità democratica risiedesse in una maggioranza e nel suo braccio operativo. Il secondo augurio è che il Pd conservi il principio di realtà, che non si lasci irretire da quel movimento di esperti che da destra a sinistra si è messo alla ricerca di un punto di mediazione che consenta di giungere a una riforma della Costituzione meno radicale di quella proposta da Meloni in cambio di una maggioranza parlamentare capace di scongiurare il referendum.

Ci auguriamo insomma che il Pd sia fededegno, che su di esso i cittadini sovrani possano contare affinché venga scongiurato lo scippo del referendum e lo scempio del “premierato forte”. Sappiamo bene che nel Pd, e al suo fianco, esiste una componente presidenzialista che negli anni si è consolidata e che considera la democrazia parlamentare un meno peggio (giustificata transizione per uscire dal fascismo) e comunque una fase transitoria per giungere a destinazione: una democrazia controllata, un’idea di governabilità da garantirsi non con la rappresentanza ampia e plurale, ma con una rappresentanza tenuta in mano da una leader personale, presidenziale, per esempio, oppure, come si dice con una perifrasi stucchevole, “premierato forte”.

Il terzo augurio che come democratici ci facciamo per l’anno che verrà è di comprendere che la posta in gioco con le elezioni per il parlamento europeo è alta anche per la politica nazionale. Avere un’Europa di destra (una destra nazionalista che neppure quando annacquata da partito popolare europeo si mostra sicura e digeribile) è un’ipoteca che dobbiamo scongiurare. Alla base di questi tre auguri vi è la consapevolezza che la sfida del nostro tempo è la tenuta della democrazia.

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