È piena la sala in cui Nicola Zingaretti, dopo dieci anni gloriosi, annuncia per oggi le dimissioni da presidente della Regione Lazio. Siamo al Tempio di Adriano, cuore della Roma politica, a due passi da Montecitorio. C’è gente, ma a colpo d’occhio si capisce che a celebrare «una bella storia» non sono venuti tutti: la giunta non è al completo, non ci sono tutti i consiglieri di maggioranza, le sedie sono occupate, sì, ma dagli staff e dai contrattisti della Pisana. L’assessora Valentina Corrado, grillina, si è presentata all’ultimo, e dopo che i cronisti avevano segnalato l’assenza delle due M5s della giunta; l’altra, Roberta Lombardi, è a Rimini per la Fiera Ecomondo. Ma la verità che sono sconfitte: erano favorevoli a proseguire con l’alleanza giallorossa. Dunque in sala mancano non solo i salamelecchi ma in generale quell’aria su di giri che c’è sempre intorno a chi ha potere, e se lo deve lasciare lo lascerà in mani fidate.

Il fatto è che il dopo Zingaretti per il Pd e alleati è il caos. Cui seguirà forse il diluvio. Ieri il prestigioso neodeputato romano, illustrando i successi dei suoi due mandati, ha risposto a Giuseppe Conte, l’ex «punto di riferimento del centrosinistra», che il giorno prima ha escluso la coalizione per le regionali piantando come condizione il no all’inceneritore romano: «Conte rompe l’alleanza che governo il Lazio senza motivo: la Regione non ha mai autorizzato e non autorizzerà nessun inceneritore», dice dal palco, «La scelta di Gualtieri per Roma riguarda la città, per far fronte ad una situazione che Roberto ha ereditato drammatica, di dieci anni di niente, ma non c’entra la Regione».

Dal Pd regionale il segretario Bruno Astorre evita parole definitive sul M5s. Ma ricucire è impossibile. Anche sei ieri Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, titolari dell’alleanza rossoverde, si sono proposti come pontieri: «Pensiamo si debba costruire una convergenza e siamo convinti che sia possibile».

Persi dunque i grillini, l’unico alleato resta Carlo Calenda, che da tempo ha indicato come “suo” nome preferito Alessio D’Amato, assessore alla sanità, iscritto Pd. Il problema è che il Pd non può farsi dettare i candidati dal leader di Azione. E anche D’Amato sa che non può essere percepito dai dem come il nome imposto da Calenda. Oggi al Teatro Brancaccio l’assessore ha convocato un’assemblea con lo slogan veltroniano inconsevole «Si può fare».

A D’Amato serve l’investitura delle primarie. Sulle quali però Calenda è tradizionalmente scettico: «Se chiudiamo su unico candidato non ne capisco il senso». Le primarie servono anche a costruire una coalizione, anche piccola. Per esempio con i rossoverdi. Sono gli stessi a causa dei quali alle politiche Calenda ha rotto con il Pd. Non è che anche stavolta farebbe lo stesso? «Ma che c’entrano le politiche, tutto dipende dai programmi», risponde, «lì c’era il loro no ideologico all’Agenda Draghi. In questo caso se dicono sì all’inceneritore, che problema c’è?». Appunto, c’è il problema che i rossoverdi non dicono sì all’inceneritore, ma comunque non è nel programma della regione, anzi come ha detto la mattina Zingaretti, la regione non l’ha e non l’avrebbe mai deciso. Ma è un tema che Calenda potrebbe agitare per spaccare tutto.

Primarie per non rompersi

Le primarie dunque servirebbero, ma rischiano di far perdere a D’Amato l’appoggio di Calenda, che è il suo «plus». E poi c’è il tema dei candidati: scarseggiano. Della partita sarebbe senz’altro Marta Bonafoni, vicina a Elly Schlein (che a sua volta in queste ore decidere se iscriversi al Pd e tentare la strada della segreteria).

Su Daniele Leodori, il vicepresidente della Regione che da oggi svolge le funzioni di presidente, è in corso una moral suasion dal partito ma anche da fuori: uomo di polso, franceschiniano, su lui avevano puntato centosessanta amministratori, quasi tutti sindaci, che a luglio si erano riuniti in una affollatissima assemblea per scommettere sulla sua corsa. Ma Leodori negli scorsi giorni ha spiegato di essere disponibile solo in presenza di un «campo largo», e cioè dell’alleanza Pd-M5s. E adesso, in mezzo a questo caos generale, deve tenere le redini della giunta, e della maggioranza, per evitare sbavature e tensioni nel finale.

Sui possibili candidati alle primarie scherza su Calenda, consapevole che che se spinge troppo sull’assessore mette nei guai il Pd: arriva in motorino a piazza di Pietra, dove Zingaretti tiene la sua relazione, e gioca con i cronisti: «Ma quale D’Amato. Il mio candidato per il Lazio è Massimiliano Smeriglio. In ticket io e lui avremmo rivoltato Roma come un calzino». Il riferimento è all’ex vice di Zingaretti, oggi europarlamentare.

Fra i due c’è stima ma è uno scherzo. Tant’è che in giornata propone anche il ticket «D’Amato-Bonafoni». Di vero c’è che il Pd deve spingere a sinistra per ancorare a sé i rossoverdi, che Conte invita a braccia aperte perché stavolta, a differenza delle politiche, non «correrà solo» come si illude il Nazareno, ma punterà a costruire un nuovo «polo progressista».

La regione verrebbe consegnata alle destre, ma così avrebbe preso la sua vendetta per le «umiliazioni» subite da parte del Pd ai tempi di Draghi, a partire proprio dall’inceneritore, che il sindaco Gualtieri ha annunciato con l’applauso di Enrico Letta. Conte dà un calcio anche ai suoi amici della sinistra Pd, proprio alla vigilia del congresso: dalla vicenda esce male la filiera che dal Campidoglio al Nazareno assicurava che i grillini si sarebbero piegati senza reazioni. Ma anche la filiera di sinistra appunto, da Francesco Boccia a Goffredo Bettini ad Andrea Orlando (a Zingaretti), i fan dell’alleanza giallorossa.

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