Doveva dirimere il conflitto durissimo fra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che il 12 dicembre scorso, alla Camera, aveva accusato il suo predecessore Giuseppe Conte di aver fatto ratificare il Mes «il giorno dopo le sue dimissioni, con il favore delle tenebre».

Invece il gran giurì nominato dal presidente Lorenzo Fontana su richiesta del presidente M5s si trasforma in un vaudeville: i due membri dell’opposizione si dimettono perché, sostengono, i tre della maggioranza si preparano a «avvalorare la versione accusatoria» di Meloni; Conte ritira la richiesta di giurì.

Fontana coglie la palla al balzo per uscire dai guai e lo scioglie. Il presidente del giurì, Giorgio Mulè, urla al falso e contro-accusa Conte di «oltraggio alla Camera». Ma siccome le carte già prodotte sono segrete (in teoria), ognuno può sostenere la sua verità.

Insomma, finisce male. Mulè non riesce a portare a casa un verdetto pro Meloni. Ma la premier e i suoi potranno sempre sostenere che l’opposizione si è ritirata dalla partita per paura della sconfitta. La verità è l’opposto: le prime 15 pagine del verdetto, delle 17 che dovevano essere, ricostruiscono il fatto che la premier abbia mentito all’aula (e agli italiani).

I due componenti dell’opposizione, Stefano Vaccari (Pd) e Filiberto Zaratti (Avs), nelle lettere di dimissioni, lo lasciano trasparire: quando ammettono che la prima parte dei lavori «ha portato, senza alcun equivoco interpretativo, a stabilire con assoluta certezza la cronologia degli avvenimenti e i passaggi istituzionali svolti dai governi che si sono succeduti dal 2017 al 2021, da ultimo quello presieduto dall’on. Giuseppe Conte, in ordine alla modifica del trattato del Mes».

Su questa prima parte la commissione ha proceduto all’unanimità, a detta di tutti: e per forza, c’erano le carte che dimostravano la legittimità dell’operato di Conte, c’era poco da cavillare.

Il problema si è posto per la seconda parte, quella del «verdetto politico», solo «una pagina e mezza», secondo Mulè. Qui i due dell’opposizione capiscono che tira aria di giustificare comunque la premier, e mercoledì sera si ritirano. E Conte sdegnato a sua volta ritira la richiesta del giurì perché «sono venuti a mancare i presupposti di terzietà e la possibilità di pervenire a una ricostruzione imparziale».

Fontana tira un sospiro di sollievo, intravede la strada per uscirne fuori senza altre risse. Il colpo di scena arriva in aula, ieri alle 14 e 30. La vicepresidente di turno Anna Ascani legge un foglio che le passano i funzionari: «La presidenza prende atto del ritiro dell’istanza da parte del deputato Giuseppe Conte, con lettera pervenuta ieri. E questo senza entrare nel merito delle considerazioni espresse nella medesima lettera. La commissione di indagine si intende, conseguentemente, sciolta».

Segreti e falsi (segreti)

Ma Mulè convoca una conferenza stampa per denunciare «il falso storico»: «È falso che la commissione abbia visto divisioni o spaccature. Non è vero che sono prevalse “motivazioni di ordine politico-interpretative che contrastano con la realtà dei fatti accertati”», come scrivono Vaccari e Zaratti. «La commissione non è entrata nel merito di questa parte».

Insomma, quella dei due esponenti dell’opposizione sarebbe stata un processo alle intenzioni, e in ogni caso Mulè sarebbe stato pronto ad accogliere un documento di minoranza. Ma qui i precedenti non si trovano, si perdono in altre ere geologiche: nel 1978 i Dc Guido Bodrato, Flaminio Piccoli e Franco Salvi trascinarono in giudizio d’onore il demoproletario Mimmo Pinto che li aveva accusati di aver fatto cambiare posizione al Vaticano sul caso Moro.

Finì che fu giudicato un «errore» a maggioranza, i membri dell’opposizione si dimisero ma la Camera non accettò le dimissioni. Mulè alza i toni contro Conte: «È singolare che lui, parte in causa, si erga a giudice. Se fossimo in tribunale saremmo di fronte a un palese oltraggio alla corte», non è vero che i lavori erano «compromessi», sono «falsità compiute distorcendo la realtà in aperta contraddizione con i doveri di segretezza e riservatezza a cui erano chiamati tutti i membri della commissione».

Fontana, uscita di sicurezza

A questo punto i due dell’opposizione replicano a brutto muso. «Lo scioglimento del Giurì d’onore è stata una scelta di buon senso», dichiara Zaratti, «ed è stata l’unica via d’uscita per la maggioranza.

Dopo le nostre dimissioni rischiavano di presentare un documento simile a un volantino politico, privo di valore istituzionale. La destra vuole abituarci alle forzature delle regole ma noi non ci stiamo», la documentazione raccolta «parla chiaro: Meloni ha sbagliato a lanciare gravi accuse al suo predecessore».

E la tesi di Mulè, che tutto andava bene fino alle dimissioni dei due, «è troppo idilliaca per essere credibile. L’unica parte sulla quale eravamo tutti d’accordo è la ricostruzione cronologica degli atti».

Vaccari rincara: la prassi «non ha mai previsto relazioni di minoranza», e al netto di dettagli che «conosciamo bene entrambi», resta agli atti «un precedente importante»: «La presidenza della Camera ha preferito annullare la partita, poiché c’era chi dopo lo svolgimento regolare del primo tempo avrebbe voluto vincere a tavolino il secondo. Non potendo contare su un Var imparziale, abbiamo deciso di farli giocare da soli».

Conclusione: nell’èra della destra, ci siamo giocati anche l’istituto del Giurì. Che aveva retto persino nell’occasione del verdetto sul caso Donzelli, ma si è schiantato sul caso Meloni.

Ormai un istituto solenne, scomodato con grano di sale nei decenni precedenti è diventato una mezza barzelletta: ieri il senatore di FdI, Alberto Balboni, ne ha chiesto allegramente un altro contro il collega dem Francesco Boccia che lo ha accusato di aver detto in commissione Affari costituzionali, di cui è presidente, una frase non proprio inusuale di questi tempi: «Qui comando io». Una grana per il presidente La Russa, che tenterà una soluzione bonaria, ma ardita: far rinsavire tutti.

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