L’accoglienza istituzionale riservata a Sviatlana Tsikhanouskaya, leader dell’opposizione bielorussa in esilio, è stata piuttosto balbettante. All’estero vede Merkel e Macron, interloquisce con Biden, viene ricevuta da cancellerie e capi di governo con attenzione proporzionale alla passione democratica infusa nelle dichiarazioni a suo sostegno.

A Roma srotolano frettolosamente un tappeto di sottosegretari e membri della commissione Esteri, lo staff di palazzo Chigi dice che «non ha notizia» (sic) di un incontro con Mario Draghi e solo dopo le rimostranze di un gruppo di parlamentari coscienziosi il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, riesce a trovare un posticino nella sua fittissima agenda.

Del resto doveva spiegare al festival del Lavoro che «ci stiamo avvicinando a una vera e propria rivoluzione tecnologica e industriale»: si capisce che dopo uno sforzo concettuale del genere non rimane spazio per molto altro.

Tsikhanouskaya rimarrà a Roma fino a domenica, dunque il governo ha ancora la possibilità di evitare che l’oppositrice dell’autocrate Lukashenko si ritrovi a guardare gli italiani che mangiano nei dehors, ma rimane il dato ambiguo di un’accoglienza improvvisata che mal si concilia con l’alto profilo del governo Draghi. Ma si concilia poi così male?

Il governo è stato fin qui ondivago nelle prese di posizione sulle questioni internazionali. Draghi ha dato del «dittatore» a Recep Tayyip Erdogan un respiro dopo aver elogiato il lavoro della Guardia costiera libica, per poi castigare in linea di principio l’immoralità di chi non sceglie da che parte stare e cede al «fascino perverso degli autocrati».

Certo, accogliere a palazzo Chigi chi non cede al suddetto fascino perverso sarebbe stato un gesto significativo ma il governo, sul fronte estero, ha deciso di investire molte delle sue energie nello spiegare alle grandi testate internazionali che Draghi è il nuovo superleader europeo e il garante dell’affidabilità italiana.

Risultato: recensioni entusiastiche sulla fiducia a Londra, Parigi e Washington, mentre a Roma il premier lascia al sottogoverno l’accoglienza della dissidente che più di tutte incarna la necessità di una leadership europea ben ancorata ai valori della democrazia liberale.

Anche la maggioranza parlamentare oscilla quando si tratta di posizionamenti internazionali. Il dibattito sulla risoluzione sulla minoranza uigura oppressa dal regime cinese vaga nelle nebbie della commissione, e la questione all’interno della maggioranza riguarda il ricorso alla qualifica di “genocidio”, cosa che a dire della responsabile Esteri del Pd, Lia Quartapelle, è controproducente perché imporrebbe «l’obbligo di un intervento armato» contro la Cina.

Dalla qual cosa si deduce che le risoluzioni del parlamento del Canada, dell’Olanda, della Camera dei comuni britannica, del dipartimento di Stato americano e altri abbiano già fatto scattare una guerra mondiale.

La gestione della visita di Tsikhanouskaya è dunque solo una conferma che distrazione e tentennamento sono la cifra del governo nelle questioni internazionali. Forse Draghi sa che con questa squadra è saggio moderare le aspettative.

Una maggioranza in cui Susanna Ceccardi difende Navalny e Maria Elena Boschi sostiene «tutti gli attivisti» mentre il leader del suo partito fa carezze ben retribuite a Mohammed bin Salman non è adatta per stare dalla parte giusta della storia. Meglio puntare, più realisticamente, a qualche titolo benevolo sul Financial Times.

 

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