Parla di «giorno dell’orgoglio Pd», Enrico Letta all’avvio dell’assemblea nazionale, a Roma, «veniamo da settimane complesse», «orgoglio Pd significa respingere l’aggressione continua nei nostri confronti da parte di chi vuole essere alternativa a noi invece di essere alternativa alla destra, pur stando all’opposizione con noi». Il congresso Pd incrocia i primi passi del governo delle destre che «si è messo, in questo primo mese di lavoro, con una linea che ci ha fatto già capire che innanzitutto sui temi identitari cerca lo scontro su tutte le questioni».

Ma il Pd deve occupare della sua ricostruzione dopo la sconfitta del 25 settembre. In primo luogo aggiustando le regole per celebrare un congresso inedito, “costituente”: «Abbiamo bisogno che lo statuto sia applicato e applicato bene, siamo un partito che crede che si possa essere una comunità, non siamo un partito personale».

Letta è sicuro che Alessio D’Amato nel Lazio e Pierfrancesco Majorino in Lombardia «corrono per vincere», il segretario cerca di tenere alto l’umore dei suoi, ma è una mission impossible: sono sotto gli occhi di tutti difficoltà di un congresso complicato nei modi, e di regionali complicatissime per il Pd, negare l’evidenza è l’ultima fatica del segretario del Pd, che resta al suo posto praticando «una logica di garanzia». Letta chiede un atto di fiducia all’assemblea nazionale, il giorno prima i maggiorenti del partito hanno raggiunto un faticoso accordo sulla road map del congresso “costituente” . È il massimo dell’unità possibile.

Un’unità che si può spezzare, sembra dire lo stesso segretario, che fa un appello a tutti: «Tutti si devono sentire protagonisti. Non bisogna dare ascolto alle voci di chi dice che se vince uno questo non è più il suo partito e la stessa cosa se vince un altro. Dobbiamo fare un congresso in cui tutti sono protagonisti e che ci consente di allargare». Quindi i venti di scissione non sono solo malignità giornalistiche. 

Che confusione

Alla fine della lunga discussione, le modifiche dello statuto passano a larga maggioranza. Degli oltre mille componenti l’assemblea, i votanti sono solo 610. I sì sono 553, i no 21. e 36 gli astenuti. 

Ma che ci sia una gran confusione su tutto, dal percorso congressuale alle stesse modalità con cui viene convocata l’assemblea nazionale – in modalità mista, presenza e remoto, perché per approvare i cambi statutari all’ordine del giorno serve una maggioranza qualificata, difficile da raggiungere con le sole presenze – lo dimostra il primo intervento: la delegata calabrese era certa che si potesse partecipare solo da remoto, che alla Sala delle Bandiere di Roma ci sia un gruppetto di presenti lo scopre solo dalla presidenza. 

Il secondo delegato denuncia che dal nazionale «non ha mai avuto risposta e non è bello né sul piano giuridico né sul piano del comportamento», e conclude chiedendo l’azzeramento del gruppo dirigente nazionale, «questo partito non ha un’anima». 

Nel corso del dibattito si scopre un Pd che al Nazareno non si sente mai: c’è anche chi, come Marcello Framondi, dalla Campania racconta di un assessore nominato «umiliando il partito locale, che non lo conosceva e che ha scoperto che era un ex assessore della destra». 

La road map

Secondo il dispositivo, che inserisce un articolo allo statuto, giovedì comincia la fase costituente. La direzione nominerà il comitato costituente nazionale, con regole di equilibrio di genere, per accompagnare la fase costituente ed elaborare il manifesto del nuovo Pd e di qui l’assemblea diventerà «assemblea nazionale costituente». La modifica allo Statuto prevede «un accorciamento esclusivamente del voto, sia degli iscritti che delle primarie, e mantiene in vita la fase costituente». 

Potranno partecipare al confronto anche i cittadini che sottoscrivono l’adesione e gli iscritti ai partiti e alle associazioni che aderiscono «con deliberazione degli organismi dirigenti», norma che al momento solo Art.1 sembrerebbe voler usare. La direzione eleggerà un Comitato di personalità del Pd e non, che entro il 22 gennaio 2023 scriveranno un “Manifesto dei principi”. Entro il 27 saranno ufficializzate le candidature. In due settimane, e cioè entro il 12 febbraio 2023, i candidati e le loro piattaforme dovranno essere votati dai circoli, e una settimana dopo, entro il 19 febbraio nei gazebo aperti avverrà lo spareggio fra i primi due.

Ma non è detto, perché ci sono le regionali in ballo. Dunque i «tempi certi» di cui parla Letta «vanno presi con beneficio di inventario». Probabilmente Lazio e Lombardia si voterà il 12 febbraio – nella prima regione lo si saprà questa settimana. Dunque la stessa modifica statutaria prevede una clausola che rimanda alla direzione un eventuale cambio di data. Qualora eccezionali circostanze lo richiedano, ovvero in considerazione delle date in cui si terranno le elezioni regionali, e fermo restando il rispetto della fase costituente, la Direzione nazionale può stabilire modificazioni del calendario congressuale». 

In pratica: il calendario proposto all’approvazione sarà con ogni probabilità cambiato: i circoli e i militanti delle due regioni fra le più popolose finirebbero in insufficienza di ossigeno. Insomma le primarie si potrebbero celebrare non il 19 febbraio ma il successivo 26 dello stesso mese.

Si stappa il dibattito

Gli interventi arrivano, in qualche caso sembra che al Pd sia saltato il tappo. Il delegato siciliano accusa Letta «di essersi dimenticato di essere il segretario del Pd» ma i tempi dell’intervento non consentono di capire con chi ce l’ha, a parte che con i «paracadutati nelle liste».

Marianna Madia attacca le correnti «che da troppo tempo bloccano la capacità espansiva del Pd e l’affermarsi di leadership innovative, l’obiettivo non sono gli armistizi di potere»; con Lia Quartapelle ha presentato un ordine del giorno, molto gettonato dalle donne, «per sciogliere le correnti», spiega poi la dirigente milanese, «per evitare che il congresso sia una conta correntizia» e rivela che la scelta di Majorino come candidato alla presidenza della Regione Lombardia è stata una scelta delle correnti, «anche i riformisti hanno detto sì a un candidato di sinistra». Alla proposta  già Dario Franceschini ha fatto sapere di non essere d’accordo. Nel dibattito anche Cecilia D’Elia dice no, «io voglio che questo resti un partito plurale». 

Brando Benifei, che pure annuncia il voto positivo alle modifiche statutarie, segnala che nelle nuove norme non si capisce «come si dovrà svolgere il contributo dei cittadini per evitare che il congresso costituente sia una nuova agorà, oggi abbiamo bisogno di un processo politico».

Insomma con i contributi degli eventuali “esterni” che si dovrà fare? «Si poteva immaginare una fase costituente vera, per un coinvolgimento adeguato. Si sta scegliendo una via mediana, per non perdere troppo tempo. Lo capisco ma non sempre la via mediana è la soluzione migliore»", dice Gianni Cuperlo, e aggiunge «risparmiamoci appelli contro le correnti da pulpiti edificati su altre correnti».

Ne ha anche per gli esterni: «Non accetto che questa sia considerata una bad company e che il bene sia solo fuori da noi, non capisco una discriminazione al rovescio. Non capisco perché chi si iscrive al partito non riceve lo stesso rispetto di chi per non appartenervi non incarna una superiorità sul resto». 

«La nostra dannazione è che dobbiamo scegliere sempre la via di mezzo», dice il vicesegretario Peppe Provenzano, fra quelli più convinti del percorso costituente, «abbiamo salvato le date, ma non sono sicuro che abbiamo salvato questo processo. Io farò fino in fondo la mia parte perché il processo riesca. Ma mi resta il dubbio che qualcuno non ci creda davvero, e che aspetti solo la conta».

No alla scissione

Parla anche Alberto Losacco, molto vicino a Dario Franceschini: «Diamo al paese una forza attrezzata per fare opposizione nel merito delle questioni, per questo il percorso congressuale non deve ridursi al ritornello del “se vince quello me ne vado”», «un metodo manicheo», dice, e assicura che «dopo il congresso chiunque vinca mi sentirà a casa».

È un intervento molto “attenzionato”: Areadem potrebbe appoggiare Elly Schlein, che partecipa ai lavori «in quanto invitata». Circolano voci che una eventuale sua vittoria – improbabile, fin qui, almeno sulla carta – sarebbe seguita da un abbandono del partito da parte dell’area riformista. «Il punto non è fare un congresso per cacciare chi perde, il punto è tutto l’opposto, è allargare il Pd», insiste Marco Furfaro, «Facciamo un congresso, facciamo anche un conflitto fra noi e fuori nella società, ma poi tutti insieme sosterremo la linea che vince, quella di un Pd che si è allargato». 

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