Il presidente della Repubblica scioglie le Camere. Era il 1972, cinquanta anni fa, e Giovanni Leone convocò le elezioni anticipate. La prima volta nella storia della giovane democrazia di una interruzione anticipata della legislatura. Le motivazioni addotte erano articolate, complesse e a tratti inevitabilmente indecifrabili.

Ma il motore primo di quello scioglimento risiede nella volontà della Democrazia cristiana soprattutto di evitare, o meglio posticipare, il referendum sul divorzio.

La legge Fortuna-Baslini aveva introdotto l’istituto che consentiva la fine legale di unioni matrimoniali, e il comitato referendario guidato da Gabrio Lombardi, e sostenuto da diverse componenti cattoliche conservatrici, puntava a far tornare l’Italia a una condizione pre-1970, scommettendo sull’influenza del clero, soprattutto al sud e nel nord-est.

Il governo monocolore Dc, il primo guidato da Giulio Andreotti, terminò così la sua corsa prematuramente, prima di iniziare la sua attività, divenendo l’esecutivo più breve della storia, appena dieci giorni. Da quel fatidico giorno del 1972 in Italia si sono succeduti altri quattro scioglimenti anticipati per altrettante monche legislature, tutto in fila: nel 1976, nel 1979, nel 1983 e infine nel 1987.

Leone, Sandro Pertini e Francesco Cossiga procedettero a sancire un esito dettato da conflittualità interna ai partiti e tra i partiti, fazionismo e frazionismo, mancanza di alternative sistemiche, frammentazione e constatando un dato un fatto inequivocabile, ossia l’elevata instabilità dei governi e nei governi.

64 governi in 64 anni

Tra il 1948 e il 2022 in Italia si sono avvicendati sessantaquattro governi, ossia una media di un esecutivo ogni quattrocento giorni, undici mesi tra il 1948 e il 1992, un po’ di più dal 1994. Ma la curva della instabilità non è mutata, anzi è stata psicologicamente trasformata in dannazione, come se fosse cioè un dato immanente, indecifrabile e permanente.

Una caratteristica ascritta all’Italia, come il clima o la morfologia. Convincendo i cittadini e i politici che dopotutto un po' di sana fibrillazione non fa male e che anzi il mutare spesso di guida al governo sia un bene, una garanzia aggiuntiva.

Lo storico epilogo della quinta legislatura con lo scioglimento anticipato del 1972 ha inaugurato una serie abbastanza lunga di interruzioni del mandato popolare. Dopo il 1993, con il nuovo sistema elettorale, nuovi partiti e una competizione diversa rispetto al passato, il termine prematuro delle legislature non è scomparso.

Oscar Luigi Scalfaro nel 1994 e nel 1996 e Giorgio Napolitano nel 2008 non hanno potuto che prendere atto della permanente e persistente conflittualità e frammentazione intra-coalizioni tra partiti non in grado di garantire governi coesi e stabili. Insomma, il sistema dei partiti non è in crisi da oggi.

Un paio di dati relativi alla “seconda fase della Repubblica”: dal 1994, l’anno convenzionale di nascita della “nuovo sistema dei partiti” (e non di seconda Repubblica), l’Italia ha avuto undici diversi presidenti del Consiglio e diciassette governi in quasi un trentennio, mentre la Germania ne ha avuti solo sei e con due primi ministri.

Cambi di maggioranze

Nella scorsa legislatura, in Italia, inoltre sono avvenuti tre cambi di maggioranze governative: estrema destra-centro, centro-sinistra, e infine grande coalizione. Significa che il problema è strutturale. Il dato congiunturale ha due sfaccettature: una si lega alla generale debolezza del sistema partitico e l’altra al sistema elettorale e al bicameralismo paritario. Con la ri-elezione del Presidente Sergio Mattarella si è intravista una sorta di moto d’orgoglio del Parlamento, una risposta troppo timida e congiunturale affinché si possa ritenere strutturale.

Il combinato disposto di istituzioni e sistema partitico deboli genera una fragilità complessiva della democrazia italiana. Esposta ai venti ricorrenti, periodici, del populismo, alle invocazioni stagionali dell’uomo solo al comando, all’esaltazione di un politico eletto messia di turno. Cui segue, in tempi sempre più rapidi, la defenestrazione per la inevitabile frustrazione scatenata da eccessive, palingenetiche, aspettative.

L’ansia da prestazione[U1] si appoggia al fideismo, alla urla di fideisti, come per tutti i neofiti, e quindi alle accuse di tradimento, sia per gli interni che si allontanassero dal verbo propugnato per accedere al potere, sia degli esterni, tacciati di essere nemici. La sfiducia sistemica come esito ineluttabile, e il qualunquismo, cibo costante per le fauci del populismo Cerbero, alla ricerca di nuovi vergini da sacrificare sull’altare del purismo e dell’antipolitica.

Democrazia complessa

La Democrazia è complessità, ricerca, negoziato, diplomazia, dialogo con l’avversario e finanche con il nemico, ove necessario. Costi in tempi e risorse, finanziarie e umane. Energie fisiche e intellettive. Nessuna semplificazione è ammessa, nessuna scorciatoia, nessuna banalizzazione, niente dicotomie o atteggiamenti ideologici o assertivi.

La relatività, la flessibilità intellettuale e il rispetto delle posizioni altrui. Ma tutto ciò si lega a una classe dirigente adeguata, frutto di partecipazione, e non di delega, di coinvolgimento e non di individualismo, di associazioni partitiche e non di gruppi trasversali. I partiti mancano all’Italia e alla democrazia come l’ossigeno.

Conoscenze, competenze, ruoli, spazi, tempi, riflessione e pensiero lungo e profondo sono stati assassinati dal populismo, anche in Italia, soprattutto in Italia, prima di altrove in Italia. Con maggiori danni. Pensando a una politica “altra” diversa dai partiti, migliore per definizione, ma in realtà più povera. Senza pensiero, senza idee.

Del resto, il trasformismo insieme al fascismo è l’altro -ismo degenerato di conio italico. Da quando Agostino Depretis, per volontà e necessità, inaugurò l’assai deprecabile pratica di costruire mutanti maggioranza parlamentari legati a singole personalità e per brevi fasi.

Dopo emuli come Crispi e Giolitti la brutta prassi è divenuta norma consuetudinaria, saltare di vascello in vascello, una quotidiana azione politica, trasversale e velenosa per la qualità istituzionale e democratica. Il trasformismo lascia dietro di sé tracce indelebili di sfiducia all’interno dei partiti, nelle istituzioni e tra queste e i cittadini/elettori.

Confermando un pregiudizio anti-politico e qualunquista che diventa profezia auto avverata e rende indifendibile ogni afflato democratico e partecipativo. Nella legislatura nata nel 2018 i cambi di casacca partitica/parlamentare sono stati circa 280 (molti del Movimento 5 stelle, non a caso), praticamente uno a settimana, considerando che alcuni deputati/senatori hanno mutato gruppo anche più volte, con imbarazzanti e sfacciati dietrofront, senza la minima dignità e pudore per smentite di starli lanciati pochi attimi prima e assertive dichiarazioni ultimative, prontamente ignorate.

Sistemi elettorali

La risposta a tali degenerazioni è stata cercata nel sistema elettorale, sottoposto a cambiamenti, modifiche, tentativi di riforma, quasi fosse un’alchimia da ripetere ripetendo passaggi e gesti di una antica ricetta magica. Apprendisti stregoni, qualche esperto poco ascoltato, e politici spregiudicati e inclini a considerare l’interesso di breve periodo e non le conseguenze sistemiche.

Proporzionale, misto maggioritario, proporzionale con premio di maggioranza, collegi uninominali, preferenze e soglie di sbarramento. Un insieme sfilacciato e disconnesso, un profluvio incoerente rispetto al contesto, piegato senza progetto complessivo agli interessi partigiani, legittimi, ma troppo minuscoli per beneficiare la collettività e consentire al sistema elettorale di dispiegare i suoi effetti. E ancora il tema è in agenda, senza una chiara strategia complessiva rispetto agli obiettivi da perseguire.

Tre Commissioni parlamentari bicamerali per le riforme costituzionali: Bozzi (1983-1985), De Mita-Iotti (1993-1994) e infine D’Alema (1997). Bicamerali che produssero proposte di riforma sempre più ambiziosi e sistemici, da interventi puntuali su alcune norme costituzionali sino al cambiamento di regime, da parlamentare a semi-presidenziale. Oltre che alla reiterata riduzione del numero di parlamentari, ormai acquisita, alle varie riforme di sistemi elettorali, alla funzione legislativa e alla complessa relazione dei rapporti tra parlamento e governo.

E poi le riforme costituzionali, con tre referendum: nel 2001, nel 2006 e infine nel 2016. Il mito della Grande Riforma, soprattutto quando non attuata, produce effetti contrastanti e spesso indesiderati. Una eterogenesi dei fini che alimenta la frustrazione e la sfiducia.

Sfatare il mito della loro fattibilità, utilità e carattere risolutivo. Viceversa, le riforme inducono una ostinata corsa e rincorsa con un effetto “mito di Tantalo”, con la roccia riformatrice che rotola giù dalla montagna. E perciò nutre scoraggiamento, ma anche visioni rigeneratrici immaginando che una volta raggiunta la vetta si possa vedere il fulgido cammino.

L’Italia e gli altri

Dunque l’Italia non è il malato d’Europa, ma non è nemmeno l’eccezione o l’eccezionalità, deve fare i conti con la realtà. L’instabilità, il trasformismo, la debolezza dei governi, la lentezza decisionale, la complessità burocratica, sono mali strutturali.

Solo nel post 1994 e fino ad oggi, rispetto all’Italia, nello stesso arco temporale la Spagna ha avuto nove governi e cinque Presidenti del governo, mentre la Gran Bretagna nove governi e altrettanti Primi ministri. Svetta la Germania con sette governi e soli tre Cancellieri.

Nessun cambiamento di sistema elettorale, azione di governo continua, identificabile e perciò giudicabile e valutabile con chiara attribuzione di responsabilità. Non un “loro” indistinto e indistinguibile, ma Blair, Zapatero, Thatcher, Schröder, Berlusconi, Jospin, Sarkozy, Aznar, Merkel.

In questi paesi i populisti non hanno sfondato le linee della decenza, non sono andate al Governo. In Italia addirittura ne esistono almeno tre di partiti populisti che insieme superano la metà dell’elettorato, e si alternano alla guida del Paese. Cinquant’anni fa il primo scioglimento anticipato delle Camere. Ieri.

Cosa fare? Riforme? Per cosa, chi

Sarebbe auspicabile ripartire da alcuni interventi, anche mirati. Si potrebbe e dovrebbe iniziare con i regolamenti parlamentari e con conseguenti e coerenti norme anti-trasformismo, e su questo il Presidente della Camera potrebbe fare molto.

Sul versante governativo, una prospettiva assai efficace sarebbe l’adozione dell’istituto della sfiducia costruttiva, al fine di contenere l’instabilità ed aumentare la responsabilità dei parlamentari contenendone le avventure al buoi. Considerando l’attuale sistema bicamerale il potere di conferire la fiducia/sfiducia andrebbe esercitato dal Parlamento in seduta comune.

E, infine, ma non da ultimo, ripartire dall’idea che siano gli elettori “gli arbitri” anche a livello nazionale e possano e debbano contribuire in modo decisivo alla formazione del Governo.
 

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