Era una sera di pioggia estiva, appiccicosa e grigiastra, il 27 giugno 1983. Nello studio Rai di via Teulada il rito dello speciale elezioni del Tg1 era stato spezzato da un ospite inatteso. L’angoscia. La paura. «L’atmosfera compassata si era decisamente rotta; si andava, si veniva, si vociava per l’arrivo di dati freschi: pareva Nashville di Altman», scrisse Ugo Buzzolan sulla Stampa. «Sul video si rappresenta una sceneggiata senza regia. Agli occhi della gente il palazzo si presenta improvvisamente ammutolito», commentò Giovanni Bechelloni.

Un giorno da lutto. Lutto nazionale: era morto il partito-stato, da sempre al governo, la Democrazia cristiana. Un morte in diretta televisiva, nel giorno che doveva celebrare il trionfo. La Dc aspettava i risultati nella sede di piazza del Gesù, alle pareti i manifesti con lo slogan Decidi Dc, ad accogliere i giornalisti Clemente Mastella, 36 anni, deputato di Benevento, in maglietta a righe e jeans.

Nessuno diede peso al primo dato, a Cittadella, nel Veneto bianco, il partito dimezzava i voti. Alla 15:30 la prima proiezione Doxa: Dc al 31,6 per cento, sette punti in meno. «Il giudizio è prematuro», provò a reagire alla botta il deputato Nicola Sanese. Per decenni sarà chiamato «l’uomo che si è scontrato con il camion della Doxa», prima di diventare il braccio destro di Roberto Formigoni in Lombardia.

Viola, Del Noce, Carli

Eppure la Dc aveva condotto una campagna elettorale aggressiva, dopo l’ennesimo scioglimento anticipato delle camere, all’inizio di maggio, mentre la Roma vinceva lo scudetto. Il presidente della squadra Dino Viola aveva conquistato una candidatura al Senato, insieme al filosofo Augusto Del Noce, in quota Andreotti.

Ma l’acquisto più importante era stato Guido Carli, ex governatore di Banca d’Italia, ex presidente di Confindustria, in corsa per il Senato come indipendente nelle liste Dc, a suggellare il ritrovato incontro tra il partito della nazione e il quarto partito, tra il consenso cattolico e la finanza laica. Il leader Ciriaco De Mita, 55 anni, figlio di un sarto di Nusco, altro che underdog, con un programma di rigore economico scritto da Beniamino Andreatta aveva rotto la diffidenza della grande impresa. L’editoria progressista si era schierata con lui.

«Destra e sinistra sono schemi mistificanti. La vera dialettica è tra vecchio e nuovo», aveva spiegato l’11 aprile a Eugenio Scalfari su Repubblica, consegnando il suo rovello: «Temo il rifiuto della politica per colpa dei politici. Badi, il qualunquismo di trent’anni fa riguardava gruppi sociali culturalmente impreparati, ma oggi il rifiuto della politica è un campanello d’allarme molto più preoccupante perché proviene da gruppi sociali avvertiti, culturalmente e professionalmente qualificati». Profetico.

Il rifiuto della politica era stato intercettato dal leader radicale Marco Pannella, che aveva invitato gli elettori a votare scheda bianca o nulla o astenersi, per protesta. Ma nessuno si aspettava cambiamenti epocali. L’unico brivido era stato il 14 giugno l’arresto del presidente della regione Liguria, il socialista Alberto Teardo, per corruzione e associazione mafiosa. «Una volgare strumentalizzazione politico-elettorale», replicò Bettino Craxi.

Il segretario del Psi stava registrando la trasmissione Italia Parla su Rete 4 (Mondadori) con Pippo Baudo ed Enzo Tortora, la prima a mettere a confronto il leader con l’arena del pubblico. «Lei rifiuta il dialogo con gli omosessuali», lo contestò Tatiana Borsa, insegnante di Avezzano, che aveva appena cambiato sesso. «Sono molto interessato a chi è diverso da me, in tutti i sensi...», replicò Craxi. Tortora fu arrestato tre giorni dopo all’hotel Plaza di Roma e cominciò il suo calvario giudiziario.

Campagna spettacolo

Fu la prima campagna-spettacolo. Con incontri inattesi. «Berlinguer e Berlusconi: chi l’avrebbe immaginata una coppia così? Eppure, eccoli qua tutti e due, nel buio della caverna elettronica di Canale 5. Berlusconi è pimpante, patinato, il doppiopetto del finanziere e la cravatta con il biscione di casa, rende omaggio da cordialone prorompente al gran capo rosso ospite della sua tivù per l’intervista elettorale. Berlinguer è tutto il contrario. I soliti vecchi mocassini impolverati. Le solite rughe sul viso asciutto, scavato, con qualche sorriso stento a rompere un sorriso sofferente», raccontò Giampaolo Pansa. «Sui monitor lampeggiano quattro Berlinguer. Poi due Berlinguer che ne fronteggiano altri due. Vuole l’effetto mosaico, onorevole? Via con l’effetto! Berlusconi è entusiasta...».

Fino allo shock del risultato. Nello studio del Tg1, il 27 giugno, conduceva Bruno Vespa, a leggere i numeri del Viminale l’esordiente nelle maratone tv Enrico Mentana. Tra i giornalisti democristiani incupiti dal crollo inatteso il ruolo del protagonista fu assunto del comico invitato a fare la parte che gli riusciva meglio, il guastatore.

«Qui sta succedendo di tutto! Dirigenti Rai che smobilitano, un cameramen ha chiesto asilo politico a Capodistria... calma, ci sono gli ultimi seggi, quelli di Lourdes e di Fatima, chissà che non succeda un miracolino... De Mita è sul bordo del cornicione, sta decidendo se buttarsi da solo o aspettare Berlinguer», si agitava Beppe Grillo davanti alle telecamere mentre Vespa lo inseguiva: «Grillo, non sei abituato alle domande, vero? Fai tutto da solo!». Si ritroveranno nello stesso studio più di trent’anni dopo, nel 2014, con Grillo capo del Movimento 5 stelle.

Il giorno dopo sul Manifesto comparve il titolo più famoso: «Forse non moriremo democristiani». «Abbiamo vinto le elezioni», scrisse Luigi Pintor. Ma si sbagliava. A sconfiggere la Dc non era stata la sinistra. La Dc aveva perso sei milioni di voti per stanchezza, per implosione. E a vincere era stata la parte opposta. I votanti scesero sotto il 90 per cento. In Veneto la sconosciuta Liga veneta conquistò 125mila voti, elesse un deputato, Achille Tramarin, e un senatore, Graziano Girardi. Il primo smottamento nel granaio di voti cattolici. L’anticipo di tutte le leghe successive.

Il 28 giugno l’Istel, il progenitore dell’Auditel, rivelò che nella fascia oraria 20-23 Rai1 aveva conquistato in media 7 milioni e 984mila spettatori, Canale 5 7 milioni e 238mila. La berlusconiana Canale 5 aveva surclassato Rai2 ed era un passo da Rai1.

I segni di una società insofferente ai vecchi partiti, nel 1981 il Censis l’aveva definita «la società dell’individualismo protetto, che vuole il massimo dell’individualismo e il massimo della protezione. Una società della bisaccia, la borsa a due tasche, tutt’e due piene».

In quel voto furono eletti deputati per la prima volta Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini, Francesco Rutelli. E Sergio Mattarella. Craxi andò a palazzo Chigi e tutto sembrò tornare alla normalità del pentapartito. E invece era l’inizio della fine. Il 27 giugno 1983 Berlusconi, Grillo, le leghe si erano dati appuntamento a distanza, in vista di correlazioni in quel momento imprevedibili, destra e antipolitica erano ancora parole inesistenti o impronunciabili. La Prima repubblica cominciò a morire in quel giorno di quarant’anni fa.

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