Una luce negli abissi di Ustica. L’ultima, quella che si sta ancora cercando 43 anni dopo la strage, l’aereo civile della compagnia Itavia precipitato in mare alle 20.59 del 27 giugno 1980 perché finito nel mezzo di una battaglia aerea come ha già stabilito ormai 24 anni fa la sentenza-ordinanza del giudice Rosario Priore: «È stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un’azione che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese di cui sono stati violati i confini e i diritti. Nessuno ha dato la minima spiegazione di quanto è avvenuto».

Un missile che ha colpito il velivolo o lo ha solo sfiorato provocandone comunque la caduta. Una tesi avvalorata dalla magistratura ma ancora rifiutata da chi si ostina a puntare sull’ipotesi della bomba collocata nella toilette posteriore vicino al motore destro. E questo nonostante i periti che hanno analizzato i resti del velivolo escludano l’esplosione interna.

Basterebbe un dettaglio: l’asse del water è stato trovato intatto in fondo al mare. Ma la bomba, e quella ventilata sarebbe palestinese (guarda caso la stessa pista alternativa suggerita per la strage di Bologna del 2 agosto successivo per scagionare gli imputati neofascisti condannati in via definitiva), cancellerebbe ogni responsabilità dei vertici militari che non furono capaci di difendere la sovranità del nostro spazio aereo.

Il muro di gomma

Quarantatré anni fa. Preistoria per le nuove generazioni. Eppure una preistoria da conoscere perché Ustica e le inchieste conseguenti sono la cartina di tornasole del buio di un periodo della Repubblica che si trascina fino ai giorni nostri, disegnano la volontà di occultare a qualunque costo verità indicibili per l’opinione pubblica, tra depistaggi, omissioni, cancellazione di prove.

E chi voleva sapere si scontrava contro quel Muro di gomma che è anche il titolo del primo film sul caso, 1991, regia di Marco Risi, sceneggiatura, con Rulli e Petraglia, di Andrea Purgatori, giornalista allora del Corriere della Sera, il primo che si incaponì nel rifiutare le versioni ufficiali, forte di una telefonata ricevuta da una fonte attendibile poche ore dopo il disastro e che lo ammoniva: «Non farti fregare».

Il marcio

La tesi prevalente, dopo l’inabissamento, fu quella del “cedimento strutturale”. Tutte le colpe addossate all’Itavia, il Dc 9 partito da Bologna con destinazione Palermo caduto per mancanza della manutenzione necessaria. E il titolare dell’azienda Aldo Davanzali, precursore delle compagnie low cost, l’uomo che aveva sfidato il monopolio dell’Alitalia, costretto a dichiarare fallita la compagnia con mille dipendenti, sotto l’accusa infamante di far viaggiare delle “bare volanti”.

Aldo Davanzali: considerato l’ottantaduesima vittima di Ustica, morto nel 2005 dopo aver speso una vita a difendere la sua reputazione e che solo a posteriori nel 2020 vedrà riconosciute le sue buone ragioni, i discendenti risarciti dallo Stato con 330 milioni di euro.

Mentre il capro espiatorio prescelto conosceva le pene del pubblico ludibrio, nell’oscurità delle segrete stanze il grande lavorío per fare sparire le prove di quanto era davvero successo nel chiaro cielo italiano di fine giugno: tracce radar, brogliacci dei controllori di volo, comunicazioni radio, diari strappati proprio alla pagina fatale del 27 giugno.

Sarebbero bastati questi indizi a far fiutare il marcio che si voleva pertinacemente nascondere. In troppi però sapevano. E uno di loro, nel 1988, qualificandosi come aviere in servizio a Marsala, strappò il sipario con una telefonata anonima a “Telefono giallo”, la trasmissione tv di Corrado Augias, in cui svelò che un superiore, un maresciallo, aveva ordinato a lui e ai colleghi di stare zitti.

La guerra aerea

Nello stesso anno nacque l’Associazione dei parenti delle vittime che, sotto la guida di Daria Bonfietti, diede un impulso formidabile alla ricerca della verità. Il cedimento strutturale fu abbandonato e si volse lo sguardo dapprima, alle esercitazioni Nato in corso nel Mediterraneo.

A fare da corollario almeno una dozzina di morti sospette, persino un paio di suicidi consumati in ginocchio (!) di persone che a diverso titolo quella notte avevano potuto vedere o orecchiare versioni ingombranti. Le due campagne di recupero dei relitti (1987 e 1991) a 3.800 metri di profondità e con enorme sforzo finanziario, permisero agli scienziati di sgombrare il campo da ipotesi fantasiose. Fino alla sentenza Priore che, se non arriva ai responsabili ultimi, definisce comunque il quadro: la guerra aerea appunto. Sì, ma chi sparò e perché?

Le parole di Cossiga

Francesco Cossiga (Archivio LaPresse)

Bisogna fare un salto in avanti al 2008, quando Francesco Cossiga, nel 1980 presidente del Consiglio, smentendo quanto aveva sempre dichiarato in precedenza e cioè di non saperne nulla, si risolse a svelare: «I servizi segreti italiani mi informarono che erano stati i francesi con un aereo della Marina. A lanciare un missile non ad impatto ma a risonanza, se ci fosse stato un impatto non ci sarebbe nulla dell’aereo».

A causa della clamorosa rivelazione, arrivata dopo le definitive sentenze di assoluzione dei generali italiani per depistaggio e alto tradimento, la procura di Roma ha aperto un’indagine in dirittura d’arrivo, presumibilmente con un’archiviazione, nell’impossibilità di individuare responsabili precisi. Eppure con la convinzione di avere faticosamente composto ulteriori tasselli dell’ingarbugliato puzzle della strage.

Il volo di Gheddafi

A quell’epoca l’Italia permetteva alla Libia, che era sotto embargo internazionale, di entrare nel nostro spazio aereo per portare i suoi Mig 21 di fabbricazione sovietica in Jugoslavia dove venivano sottoposti a manutenzione.

I Mig erano usi volare in ombra radar sotto i nostri aerei di linea per non essere visti. La tolleranza italiana aveva indispettito i francesi che, desiderosi di darci una lezione, volevano abbattere un Mig in rotta proprio sopra l’aereo dell’Itavia: sbagliarono bersaglio. Sempre quella notte e sempre su un Mig, il colonnello Gheddafi stava solcando lo spazio italiano per recarsi in Polonia a rendere visita al generale Jaruzelski. Gli italiani lo avvertirono della battaglia aerea e Gheddafi tornò indietro. All’epoca Gheddafi era inviso a Parigi che appoggiava il Ciad nella guerra contro la Libia.

Luci per Ustica

Che i francesi avessero qualcosa da nascondere risulta anche da un altro dettaglio. I giudici italiani avevano chiesto con una rogatoria se nella notte della strage ci fosse stata attività di volo nella loro base di Solenzana, in Corsica.

I francesi negarono, sostenendo che la base era chiusa. Per loro sfortuna, il colonnello e futuro generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, stretto collaboratore del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, si trovava in vacanza in un albergo vicino all’aeroporto militare. Di solito i decolli e gli atterraggi cessavano alle 17 ma nella sera di Ustica Bozzo non riuscì a dormire fin oltre mezzanotte «a causa del frastuono dovuto al viavai dei cacciabombardieri».

Torniamo all’inizio. La luce che manca per rischiarare appieno gli abissi di Ustica riguarda chi premette il bottone per sganciare il missile. Molte altre luci però sono state accese. Si intitola proprio Luci per Ustica il documentario premiato al Biografilm Festival di Bologna, in onda il 27 giugno alle 16.05 su Raitre, chi scrive ne è stato lo sceneggiatore, la regia è di Luciano Manuzzi, produttore la Sonne Film. È un omaggio a Christian Boltanski, l’artista francese che ha ideato a Bologna il museo per la memoria di Ustica.

Dal soffitto si accendono e si spengono 81 luci, al ritmo di un respiro. Daria Bonfietti rievoca l’intera vicenda con interventi di diversi testimoni, tra cui Marco Damilano, Tiziana Davanzali, Danilo Eccher, Alessandro Gamberini, Carlo Lucarelli, Loriano Macchiavelli, Vito Mancuso, Marco Paolini, Romano Prodi, Andrea Purgatori, Walter Veltroni, il cardinale Matteo Zuppi. Mariangela Gualtieri legge una sua poesia inedita, scritta per il film.

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