Il governo sembra essersi ricordato di chi si stava dimenticando.

Dopo quasi due mesi dalla pubblicazione della prima bozza della legge di Bilancio 2024, in cui non figurava un rifinanziamento del Piano nazionale per le demenze, è passato in commissione Bilancio un emendamento che prevede 4,9 milioni stanziati per il 2024, 15 milioni per il 2025 e altri 15 per il 2026. Ora manca solo il voto formale dell’aula. Associazioni, caregiver e operatori tirano un grande sospiro di sollievo.

Istituito nel 2014 e finanziato per la prima volta nel 2021 con 15 milioni di euro ripartiti in tre anni, in parte alle regioni e in parte all’Iss, il fondo del Piano nazionale demenze è stato lo strumento che «ha consentito di avviare tutta una serie di attività anche in zone in cui non esistevano servizi dedicati» spiega Andrea Fabbo, direttore dell’unità operativa Disturbi cognitivi e demenze della Asl di Modena. «Le regioni che prima non avevano un piano demenze hanno potuto svilupparne uno, e ovunque si è iniziato a parlare di centri per i disturbi cognitivi. È stato messo in moto un meccanismo virtuoso che ha portato benefici in tutto il paese».

Il rifinanziamento del fondo, che consentirà di portare avanti i progetti avviati negli anni scorsi che altrimenti si sarebbero esauriti nei primi mesi del 2024, godrà quindi di un aumento, purtroppo non ancora sufficiente rispetto alla portata del fenomeno delle demenze. «È una buona notizia rispetto all’iniziale prospettiva di non avere nulla, ma si tratta sempre di una goccia nel mare dei bisogni che questa malattia porta con sé», commenta Mario Possenti, segretario generale Federazione Alzheimer Italia. L’obiettivo per la Federazione sarebbe che il fondo diventasse strutturale, perché «una condizione come la demenza che coinvolge così tanta parte della popolazione non può essere ignorata».

Quando arriva, infatti, la malattia di Alzheimer travolge tutto, trasformando la vita in un mosaico di realtà offuscate, nomi ripetuti centinaia di volte, smarrimento, necessità di cure costanti, isolamento e solitudine. Non è una condizione rara. Solo in Italia il numero di persone con demenza stimato dall’Istituto superiore di sanità va da un milione e 200mila a un milione e 400mila. Di queste, circa 600mila convivono con demenza di Alzheimer, la forma più comune.

Cure costanti

A questi numeri vanno poi aggiunti gli oltre 3 milioni di caregiver familiari che ogni giorno gravitano attorno a un proprio caro malato prendendosene cura. Coniugi, figli e fratelli che all’improvviso si trovano a occuparsi di una persona non più autosufficiente, diventando infermieri, oss, medici, badanti.

Convivere con l’Alzheimer è una sfida enorme. Le persone necessitano di cure e attenzioni costanti sin dall’insorgenza dei primi sintomi, che provocano paura, smarrimento, cambiamenti nel carattere e nelle abitudini. E con il progredire della malattia le necessità aumentano, per il malato come per chi gli sta accanto.

Servono informazioni per capire cosa sta succedendo, diagnosi precoci per poter intervenire in tempo, percorsi terapeutici, progetti che includano le famiglie affinché non vengano isolate, come troppo spesso accade. Al momento non esiste cura. È quindi necessario agire sul presente, rallentare il decorso della malattia, aumentare la qualità della vita.

Questo può avvenire grazie ai farmaci attualmente a disposizione, ma soprattutto con l’implementazione delle terapie non farmacologiche e di progetti di informazione, sensibilizzazione e supporto a pazienti e familiari.

«Oggi c’è una grossa spinta per quanto riguarda le diagnosi precoci e lo sviluppo dei nuovi farmaci», spiega Andrea Fabbo. «Ma bisogna implementare tutto quello che c’è dopo: la rete dei servizi, la gestione dei caregiver e la prevenzione delle complicanze. C’è molto da fare, ed è tutto importante». Soprattutto in un paese con una popolazione tra le più anziane del mondo.

La malattia di Alzheimer e in generale le demenze, infatti, colpiscono soprattutto la popolazione sopra i 65 anni, anche se sono stati riscontrati casi precoci in persone attorno ai quarant’anni. Generalmente però si sviluppa in modo esponenziale con l’avanzare dell’età.

In un paese come l’Italia, con un’età media della popolazione di circa 48 anni (dati Eurostat) che la colloca al secondo posto per popolazione più anziana dopo il Giappone, prevenire quella che in un futuro non troppo lontano potrebbe rivelarsi una grossa questione sociale deve essere una priorità politica.

«Sarebbe lungimirante investire in supporto, cura e ricerca per quanto riguarda la popolazione anziana e le patologie che la interessano particolarmente», spiega Possenti. Grazie al finanziamento del Piano nazionale, sarà possibile proseguire su questa strada.

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