La folla è fitta. Si fa fatica ad attraversare la marea umana che si è riversata a Roma e sfila in corteo fino a piazza San Giovanni. L’imperativo è esserci. Il perché è riflesso nelle migliaia di bandiere palestinesi che non smettono per un attimo di sventolare.

Foto di Ivana Noto
Foto di Ivana Noto

Sui volti di chi le tiene scorrono emozioni diverse. Matteo, 24 anni, è stanco «di stare a guardare un massacro che sembra non aver fine»; c’è la rabbia di chi, come Sofia di Napoli, non condivide le posizioni assunte da «un governo complice che continua a finanziare Israele e a inviare armi»; la speranza si è materializzata attraverso le barche della Global Sumud Flotilla che, secondo Giulia, «hanno risvegliato le coscienze e puntato gli occhi del mondo su quello che avviene, senza sosta, da più di settant’anni»; la consapevolezza di trovarsi «dalla parte giusta della storia e di non essere soli» mi dice invece Nadia.

La manifestazione non si esaurisce nei numeri né nelle sigle. In piazza c’è un movimento trasversale, nato tra le immagini di Gaza che scorrono nei nostri feed. Negli sguardi dei veterani si legge la nostalgia di un tempo in cui scendere in piazza significava ancora poter cambiare le cose. Come Simone, che è certo che «di fronte a tutta questa gente le cose devono cambiare per forza».

Foto di Ivana Noto

Per ore il corteo è stato questo: una fiumana di persone comuni, compatta ma tranquilla, che camminava dietro a un’idea di giustizia e non dietro a un’organizzazione. Poi, a sera, le immagini degli scontri hanno finito per rubare la scena.

Una tensione che serve solo a dividere ma non rispecchia un movimento che, piaccia o no, si è ritrovato. Nella forma di un corteo trasversale, multiforme, di un intreccio di voci che gridano che il dolore degli altri ci riguarda tutti.

Foto di Ivana Noto

 

Foto di Ivana Noto
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