Nell’ultima conferenza stampa di Mario Draghi, quando gli è stata posta la domanda sulla sua candidatura al Quirinale avanzata da Matteo Salvini, la risposta è stata stizzita. Il presidente del Consiglio ha detto che la questione era impropria, che dell’elezione del presidente della Repubblica non si deve parlare perché l’unico che ha diritto a parlarne è l’attuale presidente.

È strano che una persona avvertita culturalmente, per esperienze istituzionali nazionali e internazionali, sostenga che in democrazia non si deve sollevare il problema di chi deve guidare le istituzioni. In realtà solo nei regimi autoritari o in quelli monarchici ereditari non si può discutere della successione. Nel primo caso il potere è a vita, nel secondo la successione è già stabilita. Nei sistemi democratici invece l’elezione della guida dello stato è una discussione aperta e affidata anche all’opinione pubblica.

La Costituzione stabilisce un solo vincolo nella scelta del nome: deve essere un cittadino italiano, uomo o donna, che abbia compiuto cinquant’anni. Quindi la rosa dei candidabili riguarda alcuni milioni di uomini e donne. E il popolo, che deciderà attraverso i suoi rappresentanti in parlamento, deve essere informato di come questa rosa di milioni di uomini e donne sarà condotta a trovare la guida adeguata.

E allora perché Draghi ha voluto troncare la discussione su una questione che fra qualche mese comunque si porrà?

Un parlamento debole

Perché il problema del Colle è legato indissolubilmente ad altre questioni istituzionali aperte: la vita del governo, quella del parlamento, le modifiche costituzionali necessarie per poter attuare le riforme richieste e accettate del Recovery plan. La questione dunque è vasta. E la discussione deve avvenire presto, immediatamente: perché il parlamento, la struttura decidente, è segnato da una disastrosa incapacità di essere all’altezza dei compiti ma anche dal fatto di essere in completa dissonanza con l’opinione pubblica del paese. Quello attuale è un parlamento nel quale le forze politiche sono entrate su programmi e leadership che nel frattempo sono stati cancellati o sostituiti. L’effetto del nomadismo dei gruppi parlamentari e del trasformismo porta al fatto che oggi la guida del paese, cioè quella del quadrilatero istituzionale – presidente della Repubblica, del Consiglio e presidenti delle camere – è molto debole perché debole è il parlamento che la dovrebbe sostenere. E Mattarella è stanco. Ha fatto una scelta. Nell’ultimo discorso, davanti a una classe di alunni di scuola elementare, ha reso omaggio e anche salutato i suoi collaboratori.

Dunque questo parlamento, che doveva essere sciolto dopo il referendum sulla riduzione dei parlamentari, oggi deve essere almeno nutrito di un dibattito pubblico ampio. La questione del Colle non può essere affidata all’intrigo, al segreto, alla riservatezza. L’occulto in questo momento è nemico di ogni prospettiva democratica.

Conservare l’equilibrio

Oggi un presidente della Repubblica deve rispondere a un criterio: per cultura ma soprattutto per studio, pratica ed esperienza, deve conoscere le ragioni della Carta costituzionale che deve garantire e tutelare, e anche i meccanismi che questa tutela richiede. Per restringere la rosa sarebbe più giusto cercare nell’area che meno è stata legata alla degenerazione della vita democratica: e quindi fra le donne.

Draghi ha fatto molto sui due compiti che aveva, risolvere la questione sanitaria della vaccinazione e avviare il Recovery plan. Ma non è in grado di fare le riforme e le politiche di trasformazione necessarie. E lo si vede dalle sue parole: Draghi ha grandi qualità di conservare al meglio l’equilibrio di sistema. Conserva bene, è preciso, meticoloso, persino stucchevole quando elenca nel dettaglio tutto ciò che viene fatto per sostenere la situazione attuale. Dettaglia la sua accettazione della politica dei bonus, attendiamo solo il bonus dentifricio. Ma è evasivo e generico su ciò che deve avvenire all’interno del sistema. Sulla giustizia, sul fisco: è stupefacente come una persona così attenta e colta è banale e generica sul futuro. Parla dei cancellieri che devono essere assunti, ma è reticente e rinvia sul caos della giustizia italiana. Del fisco dice che deve essere progressivo e legato alla crescita: mancherebbe che chi governa volesse un fisco che porti alla decrescita; e la progressività è scritta nella Costituzione, ma si sa bene che ormai è saltata in aria a causa delle agevolazioni e delle migrazioni fiscali internazionali.

Ogni riforma fiscale ha bisogno di un periodo di transizione e quindi di finanziamento della transizione, perché le nuove regole non entrano a regime immediatamente mentre le vecchie regole cessano subito. Una vera riforma sposta gli equilibri sociali e di potere. Ma Draghi è più interessato a conservare, bene, con equilibrio e con un senso anche largo di umanità e solidarietà. Ma per incidere nella trasformazione serve la lotta agli equilibri consolidati che hanno determinato gli squilibri che possono essere sanati con la politica. Cerottare e impacchettare l’esistente non può essere considerato una riforma.

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