Sessant’anni fa 88 persone, di cui 56 italiane, morirono sepolte dal ghiaccio mentre lavoravano alla costruzione della più grande diga d’Europa. La commemorazione con Schlein e il ministro Ciriani. Il presidente del governo del Canton Vallese, Mathias Reynard: «Riconosciamo la vostra sofferenza, riconosciamo i nostri errori»
MATTMARK (VALLESE) - Ci sono voluti 60 anni, ma il 30 agosto 2025, sulla diga a 2.197 metri di altezza, Mathias Reynard, presidente del governo del Canton Vallese, ha presentato le scuse ufficiali delle istituzioni cantonali per le 88 vittime di Mattmark. 88 persone sepolte dal ghiaccio a causa della negligenza, della superficialità, del mancato rispetto delle regole di sicurezza da parte della ditta che dirigeva i lavori, degli ispettori, della politica: da oggi si può dire chiaro e forte, nonostante i tribunali abbiano deciso diversamente.
Perché con gli 88 morti ci sono state altrettante famiglie umiliate da ben due sentenze, in primo e secondo grado, che assolvevano i 17 imputati di omicidio colposo e che infliggevano ai parenti delle vittime il pagamento della metà delle spese processuali. Ci sono voluti 60 anni perché le istituzioni vallesane si assumessero la responsabilità di quanto avvenuto.
La commemorazione
La commemorazione della tragedia, avvenuta il 30 agosto 1965, si è svolta di fronte a 600 persone venute da tutt’Italia. Presenti il ministro italiano per i Rapporti col parlamento, Luca Ciriani, l’ambasciatore Gian Lorenzo Cornado, la console Nicoletta Piccirillo, la segretaria del Pd Elly Schlein, l’onorevole Toni Ricciardi, la segretaria della Cgie Maria Chiara Prodi e i presidenti delle associazioni per le vittime di Mattmark rappresentate da Domenico Mesiano, del comitato Italia-Vallese. Quando Reynard ha pronunciato le scuse, un applauso commosso e liberatorio ha sciolto un dolore lungo 60 anni.
«Scuse a tutta la comunità italiana, a quella venuta a lavorare in Vallese, come a quella rimasta in patria. Riconosciamo la vostra sofferenza, riconosciamo i nostri errori». Reynard ha ricordato che non esisterebbe Canton Vallese senza italiani e italiane. E che gli italiani venuti a lavorare alle dighe, ai tunnel, alle strade hanno contribuito al miracolo svizzero, alla prosperità del Cantone e del paese.
Commosso anche Thomas Burgener, già presidente del governo vallesano. Suo padre faceva parte del collegio dei cinque giudici cantonali che, nel 1972, hanno confermato in appello l’assoluzione dei 17 imputati. Con la riapertura degli atti, nel 2022, è riemersa la prima bozza della sentenza del tribunale d’appello, poi fatta sparire. A redigerla fu Paul-Eugène Burgener.
Per lui il disastro poteva essere evitato e, per questo, accusava di omissioni gli ingegneri della Elektro-Watt, la ditta cui era stata affidata la realizzazione della diga. Per quattro degli imputati il magistrato chiedeva una condanna per omicidio colposo. Ma le pressioni della politica sul Consiglio dei cinque giudici d’appello erano fortissime e Burgener è stato isolato, perché condannare chi dà lavoro, non importa a quali condizioni, non si poteva fare. Men che meno in Svizzera, nella Svizzera di quegli anni.
Il ruolo delle donne
Nel 1965 Max Frisch, zurighese, autore tra i maggiori del Dopoguerra, aveva sintetizzato così la posizione del suo paese verso i lavoratori migranti: «Cercavamo braccia, sono arrivati uomini». Dall’Italia erano arrivati tantissimi uomini, ma anche tante donne.
La prospettiva maschile, dominante anche nella narrazione dell’emigrazione, ha fatto sì che di queste lavoratrici non si sia parlato. Non esistono neppure dati ufficiali sul loro impiego nel cantiere di Mattmark. Le donne sono state rappresentate solo come figure in lutto, dopo la tragedia.
Nel libro Mattamark 1965 (Rotpunktverlag), la studiosa Elisabeth Joris ricostruisce la storia di queste lavoratrici addette alla fornitura dei pasti, alla gestione della mensa e dell’infermeria, dei dormitori, delle pulizie, del bucato.
Alla cerimonia, a ricordare il loro lavoro sui cantieri e il loro ruolo sociale nelle province italiane svuotate degli uomini, c’era Oscar De Bona, presidente dell’Associazione bellunesi nel mondo. A onorarle anche le parole della segretaria del Pd Schlein: «Siamo stati abituati a torto ad immaginare che l’emigrazione italiana fosse prevalentemente maschile, ma quante storie di donne qui a Mattmark! Attraverso la presenza delle donne italiane sono stati fatti passi avanti importanti anche per l’emancipazione femminile in Svizzera».
Per la prima volta in sessant’anni il governo italiano era fisicamente presente a Mattmark con un suo un ministro. Luca Ciriani ha ricordato la terribile somiglianza tra questa tragedia e quella del Vajont (1963), definendole figlie «dell’affarismo, di un progresso fatto sulla pelle dei più deboli, un progresso senza scrupoli che noi non possiamo accettare».
Nel suo libro Morire a Mattamark (Donzelli), Ricciardi – storico e parlamentare italiano – ricorda che Mattmark è stato uno spartiacque: negli anni della xenofobia crescente, dell’iniziativa Schwarzenbach contro l’inforestierimento della Svizzera, che limitava al 10 per cento della popolazione elvetica gli stranieri, ha permesso di vedere che, oltre quelle braccia reclutate tra i più poveri, c’erano i volti di uomini e donne.
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