Per Giorgia Meloni il trionfo delle destre in Lombardia e Lazio resta a lungo solo un post sui social: «Complimenti a Francesco Rocca e Attilio Fontana per la netta vittoria di queste elezioni regionali», «Un importante e significativo risultato che consolida la compattezza del centrodestra e rafforza il lavoro del governo». Il voto certifica alcune evidenze: le destre, che non erano maggioranza nel paese lo scorso 25 settembre – solo la legge elettorale le aveva laureate maggioranza in parlamento – stavolta aumentano i consensi, e in due regioni politicamente pesanti. È un segnale e una tendenza.

Le opposizioni sono un esercito di senza futuro allo sbando: al doppio fallimento dello schema Pd più M5s nel Lazio, e Pd più Terzo Polo in Lombardia, va aggiunta la certificazione che la somma delle forze democratiche che si era intravista in qualche tratto dei governi Conte e Draghi, non esiste. Forse in natura, sicuramente non nelle intelligenze di Conte e Calenda. Il risultato dei tre partiti è diverso: la scommessa del Terzo Polo si arena persino con l’ex berlusconiana Letizia Moratti, la più adatta a portare via consensi a Forza Italia; la ripresa dei Cinque stelle versione “partito di Conte” era un bluff. Il Pd invece tiene, nonostante le risse a urne aperte dei candidati alla segreteria. Vedremo meglio, ma l’astensionismo è certamente degli elettori che non hanno visto una squadra competitiva in campo, e non sono andati allo stadio. La destra governa tutte le regioni tranne quattro.

Buone notizie annunciate

Le notizie buone per Meloni sono molte, ma sono queste ed erano annunciate. La maggioranza ha nella dissolvenza delle opposizioni la sua garanzia di insostituibilità. Ma la vittoria lombardo-laziale non «consolida» per niente la sua «compattezza». L’affondo di Berlusconi contro il presidente ucraino Zelensky si è abbattuto come un cataclisma sul ministero degli Esteri. E la corsa a rassicurare gli alleati, da Palazzo Chigi alla Farnesina, non copre la messa in chiaro dell’inaffidabilità del governo italiano sul fronte della guerra. Fdi ha vinto bene in Lombardia.

Ma non ha azzoppato la Lega di Matteo Salvini, risultato su cui Meloni puntava per rimettere al suo posto un alleato che tende a esondare. Le polemiche sanremesi, prima dei leghisti contro il video di Zelensky, poi contro le tiratine di rapper e baciatori, infine contro Viale Mazzini, hanno contagiato anche le file di Fdi e si è rivolto contro l’ad Carlo Fuortes, di certo non all’insaputa della premier. Che però poi ha preferito sfilarsi. Si è inabissata.

Come del resto aveva fatto nei primi giorni del caso Donzelli-Delmastro, incerta su come intervenire per salvare i suoi e sé stessa dalla figuraccia. È la stessa paura di sbagliare che ieri mattina ha dettato il comunicato di palazzo Chigi che, all’indomani delle dichiarazioni putiniane di Berlusconi, si rifugiava dietro una malattia diplomatica: «A causa di uno stato influenzale, il presidente del Consiglio ha annullato gli impegni in agenda oggi». Con i migliori auguri per la salute, suonava come la scusa di uno scolaretto che vuole evitare un’interrogazione.

La vittoria delle regionali riesce per ora a nascondere che Meloni è ostaggio dei putiniani della maggioranza, che è scarsa di consiglieri oltre il giro dei suoi famigli, che è diffidente nei confronti di chi sta fuori dal Fortino Chigi. Per ammansire l’alleato irrefrenabile, ieri ha fatto sapere che la presidenza si ritirerà da parte civile nel processo Ruby ter. La donna più potente d’Italia è una leader fortissima, sulla carta. Ma, a parte le prepotenze con i giornali e i giornalisti, fatica a esercitare la sua leadership.

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