L’erede di Angela Merkel non si chiama Giorgia Meloni. Chi possa raccogliere il lascito della cancelliera, che ha lasciato la politica nel 2021, è ancora tutto da vedere, dentro e fuori dalla cristianodemocrazia tedesca. Ma quel che un anno di governo Meloni ha certificato, soprattutto nelle ultime settimane, è che la possibilità di succederle – sogno di numerosi commentatori di area e, secondo i retroscena, della premier stessa – è definitivamente tramontata. Per capirlo basta guardare la gestione della crisi dei migranti.

Il paragone con l’ondata di profughi siriani arrivati in Germania nel 2015, con i dovuti distinguo, è quasi immediato. Le circostanze sono simili: una pressione improvvisa in termini di arrivi sul paese, che provoca anche una reazione negativa della popolazione, una concorrenza interna al governo che fa pressione sulla leader e spinge per una politica securitaria. Ma anche il cinismo di tentare la via della Realpolitik in uno spericolato accordo con partner internazionali ambigui.

Il 2015

Nel 2015 i migranti erano arrivati in Germania numerosi come non mai. Si trattava soprattutto di centinaia di migliaia di profughi siriani provenienti dai campi in Giordania e Libano. Merkel stava gestendo con durezza la crisi dell’Eurozona, ma alla fine l’anno viene ricordato da tutti come quello della crisi migratoria.

Le richieste d’asilo arrivavano in numero così elevato che l’organismo competente non riusciva a elaborarle tutte e aveva cominciato a concedere il diritto d’asilo soltanto in base ai documentati presentati dai profughi. Anche i comuni segnalavano progressivamente sempre più problemi a gestire gli arrivi.

Simbolo dell’estate in cui Merkel aveva ottenuto il via libera alla sua proposta di legge per rendere disponibili gli edifici dismessi (anche le caserme inutilizzate) è diventata la sua dichiarazione «Wir schaffen das», «ce la facciamo». La frase è poi diventata sinonimo di un’accoglienza diffusa che ha caratterizzato l’autunno seguente.

Contemporaneamente, la cancelliera si è saputa imporre sul ministro dell’Interno dell’epoca, Horst Seehofer della Csu, che aveva rincorso la propaganda di AfD, all’epoca con il vento in poppa grazie alla lotta all’immigrazione. Seehofer chiedeva un tetto agli ingressi e aveva tentato di sabotare il governo di grande coalizione da destra.

Ma nell’emergenza migranti Merkel ha saputo essere tanto accogliente quanto cinica.

La Turchia

L’accordo dell’Unione europea con la Turchia, che di fatto ha chiuso la rotta balcanica a inizio 2016, non sarebbe stato possibile senza il contributo decisivo della cancelliera. Il nocciolo del documento non è così lontano da quello firmato da Meloni e Ursula von der Leyen in Tunisia: fermare i migranti in cambio di soldi.

Nel caso specifico, porre fine all’attraversamento del mar Egeo da parte dei profughi in cambio del versamento di sei miliardi di euro. Parallelamente, anche sul fronte interno, le politiche di accoglienza si erano fatte meno lasche, ma Merkel aveva comunque pagato la sua politica dell’accoglienza in termini di consensi persi in diverse consultazioni regionali.

Le difficoltà di Meloni

Proporre una riedizione dell’accoglienza diffusa non è un’opzione percorribile per chi ha costruito una carriera sulla difesa dei confini e la celebrazione del blocco navale. Allo stesso tempo, però, Meloni non è riuscita a tenere in piedi l’accordo con Kaïs Saïed neanche per due mesi, nonostante i 250 milioni promessi dalla Commissione Ue.

Le ragioni del fallimento vanno cercate nel rifiuto di Tunisi di farsi dettare le spese da finanziare con i soldi della Commissione: a prescindere dalle cause resta però il fatto che il patto, a differenza di quello stretto con Recep Tayyip Erdogan, non sta funzionando. Lo dimostrano gli arrivi fuori controllo a Lampedusa.

Né Meloni sembra riuscire a contenere le sparate dell’alleato rivale Matteo Salvini che, novello Seehofer, è sempre pronto a lanciare siluri da destra.

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