Affrontare il tema delle migrazioni, in particolare in Italia, può apparire un’impresa da cui fuggire se non si vuole cadere nella banalità di argomentazione che sempre di più traggono origine dalle pulsioni, piuttosto che dalle riflessioni. E tuttavia le pulsioni, le passioni, i sentimenti costituiscono una parte significativa dell’approccio ai temi politici. Non ne possiamo prescindere.

Non possiamo perché siamo costellati da argomenti che proprio su passioni e percezioni costruiscono la loro capacità di incidenza: quando parliamo di guerra, della quasi irreversibile crisi ambientale, di una crisi sociale unica negli ultimi 60 anni stiamo parlando di vita, di morte, di sopravvivenza di singoli e comunità. Perché, dunque, non ammettere che la paura è il motore di tante scelte politiche e che, anzi, è opportuno prendere consapevolezza di tale paura, perché solo grazie a ciò possiamo provare a non essere governati da irrazionalità e incoscienza. La paura non è il male, ma un ordinario stato d’animo che ben può indurre scelte positive, di coraggio, consapevolezza, resistenza, ritorno a uno stato di serenità.

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Eppure, nonostante ci siano rischi e minacce alla convivenza sociale e anche alla vita “nuda” indubbiamente capaci di incidere sullo stato d’animo individuale e collettivo, sono le migrazioni, soprattutto in campagna elettorale, che diventano il termine di paragone delle nostre fobie.

Vale poco sottolineare che ogni anno gli emigrati sono più degli immigrati, che viviamo un declino demografico che non sarà invertito dalla maggiore agiatezza dei nativi (Istat) o che le persone straniere contribuiscono al sistema di welfare state italiano molto più di quanto non ricevano dallo stesso (Inps). Perché il tema che si assume a base del ragionamento politico non è quello reale, ma un altro fittizio che, prima indotto, viene poi percepito dal corpo sociale.Gli immigrati, tutti e indistintamente, sono, oltre che pericolosi, portatori di malattie, sporchi, rumorosi, etc., troppi e le frontiere vanno chiuse, sigillate, difese.

An empty and punctured rubber boat floats after migrants who were sailing in it were rescued by Italian coast guards south of the Italian island of Lampedusa in the Mediterranean sea, Saturday, Aug. 6, 2022. (AP Photo/Francisco Seco)

L’abbandono della politica dei flussi

Questa percezione è giunta, oramai da tempo, anche nelle stanze dei governi italiani i quali, da quasi venti anni, non solo hanno continuato a far leva sulla paura ma hanno anche deciso, di abbandonare quel sistema legale, nemmeno troppo virtuoso, che il legislatore aveva introdotto per permettere l’ingresso di lavoratori stranieri dall’estero: abbandonata dal 2004 la programmazione triennale dei flussi di ingresso, saltuariamente e senza particolare rigore si sopperisce alle mancanze di cui sopra autorizzando l’ingresso  di poche “quote” di cittadini stranieri, ciclicamente ci si rifugia in “sanatorie” per dare un po’ di aria alle imprese che hanno bisogno di lavoratori stranieri, ma (soprattutto) ci si affida strutturalmente alla manodopera straniera con titoli di soggiorno precari o addirittura del tutto irregolare.

A distanza di vent’anni dalla Legge Bossi-Fini è però impossibile che i governi non sappiano che precarietà o irregolarità del soggiorno e sfruttamento lavorativo o imbarbarimento sociale sono tra loro direttamente proporzionali e che la proposta politica di chiusura delle frontiere è irrealizzabile materialmente, prima che giuridicamente.

Perché?

Viviamo in Italia, 8 mila chilometri di costa e una vicinanza tale a molti Stati di transito e di emigrazione che se sei allenato li raggiungi anche in canoa; la storia ha dimostrato che i movimenti delle persone tutt’al più si modificano, non si fermano. Questo lo sanno tutti. Ma allora perché le proposte politiche sono rimaste sempre le stesse?

La risposta, che in pochi si azzardano a svelare, appare semplice: si vuole lasciare che le persone entrino in Italia in maniera insicura e, soprattutto, irregolare, così che, vulnerabili e ricattabili, prive di titoli di soggiorno stabili si può drogare il mercato del lavoro con persone prive di potere contrattuale costrette a ricevere salari molto bassi.

Posta in questi termini la proposta originaria acquisisce il pregio della verità e possiamo collocare politicamente non emotivamente la “chiusura delle frontiere”: la sua funzione è la crescita di ricchezza per le classi sociali più ricche, la sua conseguenza l’ampliamento del divario sociale.

La scelta di chiusura dei confini non è nemmeno dal punto di vista economico quella preferibile e allora dobbiamo chiederci quale sia l’alternativa possibile.

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Da parte di chi scrive sarebbe semplice sostenere che la libertà di circolazione e di soggiorno delle persone è la politica più efficace. Ma sappiamo che la maturità delle forze politiche in Italia non è tale da potere accogliere senza remore una tale idea: venendo da decenni di costruzione della paura dell’uomo sull’uomo sarebbe sin troppo facile violentare una tale idea sui social media.

Non possiamo, però, nemmeno sbandierare come vincente la politica della programmazione dei flussi formalmente in vigore in Italia e sostenere che il meccanismo ideale è quello attuale, in base al quale l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro avviene a distanza, con il datore di lavoro in Italia e il lavoratore a migliaia di chilometri. 

Non possiamo, perché nel 2022 le imprese hanno chiesto 205 mila lavoratori stranieri e il governo ne ha autorizzati all’ingresso 69.700, perché il sistema legale non è mai stato applicato dai governi, perché non è più sopportabile la bugia istituzionale dell’incontro a distanza, perché nessun imprenditore vuol perdere il suo tempo per avere una persona non formata e che non conosce.

Un visto di durata annuale

Migrants, mostly from Tunisia, wait in a wooden boat as they are assisted by Spanish NGO Open Arms crew members during a rescue operation south of the Italian island of Lampedusa in the Mediterranean sea, Saturday, Aug. 6, 2022. (AP Photo/Francisco Seco)

Questo sistema è superato e va invece introdotto il visto di ingresso per ricerca di lavoro di durata annuale e possibilità di sua trasformazione in permesso per lavoro e, in mancanza di lavoro, il rientro volontario nel paese di origine tramite un programma di supporto.

Al contempo occorre anche garantire che la persona straniera presente in maniera irregolare in Italia, sulla base di indici che attestino il legame effettivo con il paese, possa ottenere un permesso di soggiorno che lo sottragga alla invisibilità senza ricorrere a sanatorie o regolarizzazioni che la nostra Pa non sa neanche gestire; occorre prevedere che, se un datore di lavoro fa richiesta uno specifico lavoratore per offrirgli una occupazione o qualora un lavoratore voglia candidarsi per una determinata occupazione, sia facilmente rilasciato un visto di ingresso a tale scopo.

Il beneficio della semplicità del sistema in termini di circolarità della ricchezza, riduzione delle migrazioni economiche e mobilità del lavoro è indiscutibile. La mancanza di vincoli all’ingresso stringenti come quelli attuali renderebbe facilmente digeribile il rientro nel proprio paese, perché si potrebbe venire ancora in Italia con lo stesso sistema e tutto ciò eliminerebbe anche i costi (economici, sociali, amministrativi) della detenzione e espulsione amministrativa.

Il problema dell’Italia non è un problema di numeri o di mancanza di posti di lavoro o di sottrazione di ricchezza ai cittadini; non è neanche la paura che, abbiamo detto, può generare consapevolezza e ricchezza sociale.

Il problema dell’Italia è la mancanza di verità che si nasconde dietro le proposte politiche attualmente in campo in materia di immigrazione e la incapacità, da parte di coloro che non le condividono, di svelarle.

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