Le molestie sessuali sul luogo di lavoro sono un fenomeno ambiguo anche nella loro consistenza. Sono dappertutto e sono nascoste, come una montagna sottomarina che non appare a un superficiale giro d’orizzonte. La denuncia penale arriva assai raramente, solo nel 2 per cento dei casi segnalati e spesso alla fine è la donna a farne le spese, come è successo alla 23enne barista di Cremona che a primavera, con le prime riaperture e il risveglio degli appetiti post segregazione da Covid, per aver denunciato i palpeggiamenti dietro al bancone del suo capo a un centro anti violenza si è trovata licenziata dopo l’assoluzione di lui.

La sopportazione della vittima alle avance del superiore gerarchico da noi è considerata normale, da mettere in conto e non è sembrato affatto strano che neanche il #MeToo abbia attecchito in Italia. Eppure qualcosa sta cambiando, qualcosa che proprio dai luoghi di lavoro delle donne potrebbe servire come il filo di Arianna per strangolare il minotauro del maschilismo violento.

La legge inapplicata

Perché sempre di quello si tratta alla fin fine: il mostro che dopo percosse e aggressioni quotidiane uccide una donna ogni tre giorni tra le mura di casa è lo stesso che in ufficio pensa di poter liberamente soggiogare la collega, la dipendente, la stagista. Talvolta però le leggi cambiano, in Italia da pochi mesi ne esiste una – la legge n° 4 del 2021 – che ratifica la convenzione internazionale 190 anti violenza di genere. Peccato che non sia ancora applicata, manca proprio la bollinatura europea.

Di agire su questo scivoloso argomento più che l’Europa questa volta ce lo chiede l’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia delle Nazioni unite specializzata nella difesa dei diritti umani e della giustizia sociale negli ambienti lavorativi.

E così il parlamento quattro mesi fa ha varato la normativa, già approvata dai due rami, che prescrive alle aziende di predisporre un ambiente di lavoro confortevole e rispettoso delle donne, che per inciso in questo modo lavorano di più e meglio. E soprattutto si ammalano di meno. O non decidono di mollare il lavoro appena possibile.

È legittimo pensare che non sia solo la maternità e la mancanza di servizi all’infanzia, dei servizi di supporto per le persone anziane o non autosufficienti, a scoraggiare le donne nell’occupazione. Ciò che le spinge fuori dal mercato del lavoro nell’età più produttiva, che coincide con la massima fertilità, diciamo tra i 25 e i 49 anni, deve riguardare un insieme di fattori.

Non soltanto l’essere madri in un paese che non riesce a coinvolgere i padri nelle attività di cura. Altrimenti non si saprebbe come spiegare che l’Italia sia al tempo stesso in fondo alla classifica europea di forza lavoro femminile effettivamente impiegata o alla ricerca di impiego e anche in fondo in fondo alla lista della fecondità.

Sono poche le lavoratrici, solo il 49 per cento nell’anno pandemico appena trascorso, poco al di sopra di dieci anni fa e con uno scarto abissale dalla media europea del 62 per cento della forza lavoro complessiva, e poche le madri, l’indice di natalità è il più basso d’Europa. Non è da credere che siano solo i figli – o almeno il primo figlio – a inibire alle donne, anche quelle con minori disponibilità economiche e parentali, nella ricerca attiva di una occupazione retribuita. Uno studio già vecchio di una decina d’anni per Istat-Cnel firmato dalla data scientist Alessandra Righi stabilisce, confrontando le statistiche di Italia, Spagna e Grecia, che «non ci sono differenze di tasso di occupazione tra le donne con o senza figli» e in fin dei conti «l’incremento di opportunità di lavoro per le donne potrebbe persino determinare un recupero di fertilità».

In ogni caso l’aumento della percentuale delle donne occupate vale diversi punti percentuali di Pil, anche se studi attuali della Banca d’Italia su questo argomento non sono disponibili. Dunque configurare ambienti confortevoli per le lavoratrici, in particolare delle giovani, non è cosa che riguarda solo il bon ton. Riguarda, oltre alla giustizia sociale, la ricchezza di tutti, come ha ricordato il capo dello Stato Mattarella al premio Bellisario.

Il meccanismo

La molestia è subdola. Comincia quasi come un corteggiamento o una protezione speciale, attenzioni maschili che sembrano innocue, poi gli ammiccamenti passano di livello, si condiscono di volgarità e umiliazioni, fino al vero stalkeraggio e magari alle minacce di licenziamento, di rappresaglie in termini di regolarizzazione o di orario. Intanto la donna viene isolata dai colleghi maschi e spesso anche dalle colleghe, che il più delle volte non riconoscono la gravità della molestia e i diritti delle donne a non subire un simile abuso.

È questo il meccanismo classico descritto dall’avvocata milanese Francesca Garisto che da anni si occupa in particolare di molestie e violenze sul lavoro. «C’è quasi sempre una implicazione gerarchica in situazioni di molestie visto che il potere del superiore è uno degli strumenti della violenza», sostiene la legale, che lamenta una «generale sottovalutazione dei casi da parte delle autorità a cui viene segnalata, inclusa la magistratura».

Se non ci sono prove, non esiste denuncia penale né processo, né sanzione. Mentre la punizione serve, non solo come deterrente, ma per rompere un clima di omertà e connivenza che alimenta la cultura maschilista. Le denunce arrivano quando la donna proprio non ce la fa più. «Di solito la donna prima si mette in malattia per un po’ e cerca di andare avanti, poi comincia a stare davvero male: depressione, attacchi di panico, qualche volta si arriva al tentato suicidio». A Milano, racconta la legale, una lavoratrice di un piccolo esercizio commerciale che subiva maltrattamenti e molestie da anni dal suo principale, fino ad ammalarsi, ha chiamato in giudizio l’azienda, una catena di negozi, e il giudice ha condannato tutta la filiera di comando perché sapeva e non ha fatto niente, «è stata una sentenza meravigliosa ma rara, almeno finora».

La differenza la può fare la legge che, come spiega Gianna Fattinanzi della Cgil, chiama direttamente in causa la responsabilità dell’azienda che può essere multata e allarga il raggio di azione del molestatore all’ambito lavorativo e protegge la donna a indipendentemente dallo status contrattuale, «il che significa la molestia non deve necessariamente avvenire in ufficio, ma anche se ti trovi il tuo capo sotto casa o se è ad opera di un cliente mentre fai una consegna, una grande innovazione soprattutto in epoca di diffuso smart working», specifica.

Prima ancora della legge, esiste già un protocollo interconfederale contro le molestie e le discriminazioni di genere sui luoghi di lavoro, applicato in modo più stingente tramite patti territoriali e ancor più, almeno sul lato della prevenzione dei comportamenti scorretti, nel mondo cooperativo e nelle banche.

Ma l’accordo tra le parti sociali non prevede sanzioni e così al massimo le aziende, di fronte a un caso segnalato, al più si limitano a trasferire altrove, in altra sede, il molestatore.

Niente bollini rosa

«Non può essere questa, la risposta perché non solo si limita a spostare il problema ma inoltre è una soluzione che implicitamente criminalizza la donna, come fosse lei, l’oggetto del desiderio, a far scattare il comportamento molesto», è l’opinione di Francesca Bagni Cipriani, consigliera nazionale di parità, l’organo statale monocratico che sorveglia le discriminazioni sul lavoro in collaborazione con le consigliere regionali. Sarebbe più proficuo farlo partecipare coattivamente a un corso di rieducazione a comportamenti corretti e non vessatori, da introdurre periodicamente in tutte le aziende come quelli per la sicurezza.

La rivoluzione della gentilezza sul lavoro non sarà comunque una questione di “bollini rosa” o certificazioni di “best pratices” nella parità di genere, secondo il mantra del ministero della Famiglia diretto da Elena Bonetti. Anzi, secondo il sindacato proprio questi bollini rosa, previsti anche nel Piano di ripresa e resilienza per ottenere un punteggio migliore nelle gare d’appalto, possono sigillare ancora di più l’omertà interna rispetto ai casi di molestie. Ciò che invece sembra funzionare è una dirigenza femminile sensibile al problema.

Nell’industria farmaceutica diretta da Diana Bracco, molto impegnata nella difesa dei diritti delle donne, l’audit interno non ha ricevuto denunce anonime ma alle risorse umane fanno capire che «nessuno si azzarda ad avere comportamenti errati, sarebbe un suicidio professionale». E del resto un recente sondaggio di Great Place to Work intervistando 85mila donne di oltre 20 aziende negli ultimi cinque anni, dice che la maggiore “felicità femminile”, cioè un ambiente sereno, con equità nei trattamenti economici e nelle promozioni e non discriminazioni di genere, viene riscontrata laddove la presenza femminile nel management è più alta.

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