Lo scorso autunno sono rimasta colpita da una notizia riportata da alcuni giornali australiani e dai social network. Su Twitter e TikTok qualcuno aveva lanciato una domanda rivolta alle donne «Se gli uomini scomparissero dalla faccia della terra per 24 ore, voi cosa fareste?». Nel giro di qualche ora avevano già partecipato al sondaggio in migliaia, e la maggior parte delle risposte che arrivavano da donne di tutto il mondo era una variante di «farei una passeggiata da sola di notte» («tornerei a casa la sera tranquilla in bici da sola», «eviterei di affrettarmi al buio sulla strada tenendo le chiavi infilate tra le dita a mo’ di tirapugni», «andrei a ballare da sola alle tre del mattino al parco»). Il tweet di una ragazza che ha riassunto le risposte, constatando che avevano quasi tutte come denominatore comune la libertà dalla paura di essere aggredite, ha avuto quasi mezzo milione di like.

Questa cosa mi ha rattristato e mi ha fatto molto pensare. In fondo il nocciolo della questione patriarcale è lì. Nella misura dei nostri corpi. Un genere può prevaricare con la forza, l’altro è più vulnerabile. Nei secoli questa prevaricazione fisica è diventata sistematica e ha determinato il corso della storia. Le donne hanno vissuto e sono cresciute in una sorta di paura implicita (in gradi diversissimi, certo, ma ovviamente teniamo conto che i distinguo «mia nonna era più alta e più forte di mio nonno», «io non ho mai avuto paura, sono cintura nera di karate» sono eccezioni che non fanno statistica). Una paura che appartiene a tutti quelli che hanno una stazza e una forza fisica minore di fronte a un essere più grosso e potenzialmente capace di sopraffarti fisicamente, che più o meno tutti abbiamo provato da bambini ma che per i maschi a un certo punto finisce, per le femmine no.

Il caso Sarah Everard

Tutto questo mi è riaffiorato in mente in questi giorni pensando al terribile caso di Sarah Everard, la giovane donna che è scomparsa a Londra il 3 marzo mentre stava rincasando a piedi di notte da Clapham a Brixton e i cui resti sono stati ritrovati qualche giorno fa nel Kent, a circa ottanta chilometri dall’ultimo luogo nel quale era stata vista. Il principale indiziato della sua uccisione è un poliziotto, Wayne Couzens.

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A dare il colpo di grazia all’amarezza per questa notizia è una foto che ho visto oggi sui social in cui una ragazza con i capelli rossi e la mascherina compare immobilizzata a terra da due poliziotti in giubbetti giallo fluo. L’immagine viene sempre da Londra dove era stata organizzata, nella sera del 13 marzo la fiaccolata “Reclaim These Streets” (Riprendiamoci le nostre strade) a Clapham Commons in memoria della Everard e delle vittime dei femminicidi.

Per via delle norme anti-Covid la polizia è intervenuta per disperdere le persone, e a quanto pare non ha risparmiato le donne dalle aggressioni fisiche. Quei giubbottini catarifrangenti che sovrastavano la testa della ragazza evidenziavano in giallo fluo il paradosso della situazione, una donna che manifesta pacificamente contro le aggressioni maschili, viene aggredita da due uomini, peraltro responsabili della protezione urbana nella civilissima Londra.

Quasi tutti

Nella mia vita sono stata piuttosto fortunata e sono state veramente limitate le aggressioni che ho subito dagli uomini, anche se comunque ci sono state e me le ricordo tutte. Forse la più traumatica fu la prima, a dieci anni, mentre tornavo a casa da scuola a piedi. Ero in quinta elementare, un ragazzino della mia scuola a cui forse piacevo o che forse mi odiava o forse entrambe le cose chiamò tre suoi amici, tra cui uno che era in classe con me e mi attaccarono, così, di punto in bianco e senza motivo, chiamandomi puttana. La strada era deserta.

Mi spintonarono contro una staccionata e mentre due mi tenevano ferma uno di loro mi tirò un pugno in faccia poi scapparono ognuno a casa sua. Tornai a casa in lacrime con un labbro spaccato. Erano tempi in cui neanche esisteva la parola bullismo. Nessuno prese la cosa tanto sul serio, a casa pensarono che avessi “litigato” con dei bambini e fosse finita a botte. La scuola non venne minimamente coinvolta. Venne mia nonna a prendermi all’uscita il giorno dopo, si fece indicare i ragazzini e gli fece un cazziatone. Io mi vergognai pure della scenata. Ma fu efficace e tutto finì lì. Mi pare di ricordare che a fine anno fui pure invitata alla festa di compleanno di uno di questi e ci andai. L’unica conseguenza di tutto questo è che da quel momento in poi mi sono sempre guardata le spalle camminando da sola.

Sono capitati altri episodi. Ma la paura non mi ha impedito di fare lunghi viaggi in autostop con un’amica quando avevo vent’anni, di accettare passaggi da sconosciuti mentre c’era lo sciopero dei mezzi, di tornare a casa di notte da sola, magari indossando scarpe con le quali era impossibile correre. So che potevo fare la fine di Pippa Bacca, (l’artista italiana che è stata violentata e uccisa durante la sua performance itinerante Sposa in viaggio per la quale aveva iniziato ad attraversare in autostop diversi paesi in guerra, vestendo un abito nuziale, per promuovere la pace e la fiducia nel prossimo. Sic.).

So che Sarah Everard potevo essere io. E tante volte ho camminato di notte con le chiavi in mano o parlando con qualcuno al telefono finché non arrivavo, e ho apprezzato i tassisti che riaccompagnandomi hanno aspettato che fossi entrata sana e salva nel portone prima di andarsene e so che queste abitudini, come cambiare marciapiede se si è da sole quando si vede sopraggiungere un uomo, le adottiamo in tante. Alla fine, nella maggior parte dei casi non succede niente. Ovviamente “not every man”. Gli uomini sono quasi tutti brave persone che non farebbero del male a nessuno. Ma è in quel “quasi” che si annida la differenza. E nel fatto che la loro struttura fisica li pone innegabilmente in una posizione di forza dalla quale è difficile immedesimarsi nella parte più vulnerabile. È una constatazione che sembra lapalissiana ma secondo me non lo è così tanto. È difficile mettersi nei panni degli altri.

La controprova

Io me ne sono resa conto con una controprova. Una volta ho subìto una molestia da parte di una ragazza. Eravamo in un locale e questa tizia che era leggermente più bassa di me, minuta, mi ha chiesto una cosa e mentre mi avvicinavo per risponderle nel frastuono, mi ha toccato il seno a ha cercato di baciarmi. Io l’ho respinta rapidamente con le mani. Lei ha barcollato. Mi ha chiesto scusa ed è finita lì. Le ho sorriso e sono tornata a ballare. Quasi non l’ho manco catalogata come molestia, mi è sembrato un episodio buffo da raccontare. E poi mi sono chiesta, se a mettermi le mani addosso fosse stato un maschio l’avrei presa diversamente? E la risposta era sì. Era sì con un perché. Sarebbe stato diverso perché avrei avuto paura. E io di quella ragazza non ho avuto timore nemmeno per un secondo.

Spingendola via il suo corpo ha vacillato per quanto era leggero. Ho avuto la netta sensazione che se anche lei avesse insistito e fosse tornata alla carica, l’avrei stesa senza problemi. La pesantezza della gravità di una molestia che subisci la determina anche la quantità di paura che ti provoca. E la paura è legata alla possibilità o meno di reagire salvandoti. È una questione legata a doppio filo con il potere, del resto. E infatti in molti casi non si tratta solo di potere fisico ma di potere in generale di danneggiarti (si pensi a tutte le molestie subìte per paura di ritorsioni sul lavoro, sugli affetti, sulla sicurezza economica). Poter reagire senza temere conseguenze ti rende innegabilmente più forte. E questa cosa della differenza della posizione in cui ti trovi è difficile da far capire, come è difficile l’empatia da chi sta inconsapevolmente dalla parte del privilegio.

Paure a confronto

Inviterei tutti gli uomini a fare un esercizio. Potrebbero immaginare di ritrovarsi a vivere in un mondo in cui la metà delle persone è più alto di lui di quindici-venti centimetri e ha la stazza, i muscoli e la forza fisica per atterrarlo con un paio di pugni o correndo, di acchiapparlo facilmente, di usargli violenza. Provi l’uomo medio a pensare di essere un peso piuma in un mondo in cui la metà della popolazione è un peso massimo rispetto a lui. La maggior parte di queste Mike Tyson sono brave persone. Ma qualcuna no. Provassero gli uomini a pensare cosa significa crescere e vivere con un sottofondo di paura di ritrovarsi in una strada isolata mentre sopraggiunge Mike Tyson. Non so se sia facile né se l’idea renda abbastanza.

Il sindaco di Londra, Sadiq Kahn, ha ammesso che la capitale non è un posto sicuro per donne sole e le ha invitate a stare attente. La Baronessa Jones, la leader del partito Verde inglese, in tutta risposta ha proposto un coprifuoco alle 6 solo per gli uomini, in modo che le donne possano essere sicure e libere di uscire da sole. Apriti cielo. Ha ricevuto persino delle minacce di morte (evidentemente non c’è modo di alleggerire il clima di pericolo). Ha ammesso che si trattava ovviamente di una provocazione e di non avere nessun mezzo per realizzare una cosa del genere, ma è un modo per far riflettere. Nessuno si scandalizza altrettanto se si invitano le donne a stare attente e non uscire da sole. Secondo giustizia tra la vittima e l’aggressore a chi deve essere limitata la libertà d’azione? Perché deve stare alla donna mettersi nella condizione di non essere aggredita restando chiusa a casa la sera? Non è questa forse la prova che c’è un problema di misoginia se viene sistematicamente privilegiata la libertà degli uomini rispetto a quella delle donne? La Baronessa Jones ha detto «Il fatto è che gli uomini non capiscono sotto quale pressione vivono le donne».

Come dice Margaret Atwood, l’autrice americana dei Racconti dell’Ancella, che di questi problemi un po’ se ne intende, «Gli uomini hanno paura che le donne ridano di loro. Le donne che gli uomini le uccidano». Sembra una frase esagerata, ma in quanto donna posso confermare che sintetizza una grande verità. Abbiamo parecchi precedenti, purtroppo.

 

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