Niente aiuta a misurare l’arcaicità della leggenda berlusconiana quanto la ricapitolazione mediatica del suo rapporto col femminile. «Le belle donne costano», ebbe a dire una volta, ed era il machismo ingenuo dell’imprenditore milanese che si è fatto da sé, con astuzia lavoro instancabile e amicizie giuste, per cui le belle donne sono il riposo del guerriero.

Colpo grosso

Sposato due volte, la seconda con una bellissima attrice, trovava che le avventure galanti fossero l’adeguato coronamento della ricchezza; nei primi anni Settanta, in una conversazione al Jamaica, il bar famoso nel quartiere Brera di Milano, confessò a Gigi Rizzi (il playboy che vantava nel proprio palmarès nientemeno che Brigitte Bardot) «ho idea di creare una televisione privata, così me le s… tutte».

La televisione poi la fondò, e diventò Mediaset, e costrinse anche la Rai ad adeguarsi al nuovo trend spettacolare e di costume; in programmi come Colpo grosso (per cui si mormorava che avesse collaborato al format, poi imitato in vari paesi, dalla Svezia al Brasile, dalla Germania alla Spagna) o il situazionista-ironico Drive In, l’esibizione del corpo femminile appariva trionfante, comica e politica, libertaria e gastronomica – i maschi proletari e piccolo-borghesi guardavano quei seni e quei glutei invidiando il magnate che li metteva a disposizione del popolo.

Era lo scintillio che accompagnava anni affluenti; le femministe già protestavano ma la corrente principale andava nella direzione dei corpi delle maggiorate intesi come sineddoche del consumismo, la rivincita rispetto alla censura democristiana che aveva ingabbiato le gambe delle Kessler.

Unico boss virile

LaPresse

Quando scese in campo con inaspettato e fulmineo consenso elettorale, quel brillio di carne femminile lo accompagnò, come lo accompagnò il mito della sua ricchezza; raccontava barzellette scollacciate che i militanti del suo nuovo partito accoglievano con grasse risate; alle sostenitrici e alle deputate (portò in parlamento una nutrita quantità di donne) rivolgeva complimenti pesanti che ora sarebbero considerati molestie.

Allo stesso tempo, senza contraddizione apparente, proclamava venerazione per la madre mentre le collaboratrici testimoniavano che con loro si comportava da “gran signore”, gentile e generoso.

Più cresceva l’opposizione, e quanto più si alimentavano i sospetti sull’origine delle sue fortune, su stallieri poco raccomandabili, su tasse pagate o evase, più la sua arroganza piaceva, sembrava che nulla potesse resistergli; anche quando in parlamento erano gli altri in maggioranza, lui restava il punto di riferimento.

Furono “gli anni berlusconiani”: gli indubitabili pregi (il bipolarismo instaurato, le conoscenze internazionali) e le indubitabili debolezze (l’incapacità di creare una classe dirigente, le leggi ad personam) si appoggiavano e si giustificavano, nella cultura di massa, anche su, e con, un’impressione di potente virilità (circolava “Silvio Berlusconi” anagrammato come “unico boss virile”).

A Villa Certosa il premier ceco Topolanek prendeva il sole nudo, giravano battute sul “Cavaliere di Hardcore”, si affabulava che a palazzo Grazioli ricevesse le ragazze nascoste nelle ambulanze per eludere i giornalisti e i militari di guardia.

Dopo il terremoto dell’Aquila fu esaltato e demonizzato, ma lui non sapeva trattenersi dal dire agli operai che lavoravano alla ricostruzione «che fate lì sopra? Siete tutti gay? La prossima volta ve le porto io le veline». Irresistibile gallismo arci-italiano.

Cene eleganti

Poi venne il compleanno di Noemi Letizia, il diciottesimo, e fu il crollo. Lei ammise che era stata a trovarlo con un’amica in Sardegna, dunque da minorenne; cominciarono le domande scandalizzate, le vergini offerte al drago eccetera. Giuliano Ferrara gli suggerì di dire semplicemente la verità, «mi piace tenere delle ragazze giovani sulle ginocchia» – e forse (allora, nel 2009) gli italiani di massa avrebbero capito.

Invece si arrampicò sull’insostenibile narrazione delle “cene eleganti”: comparve una schiera di ragazze di varia caratura, agli italiani furono servite intercettazioni tanto divertenti quanto devastanti per il carisma di un leader («punta sul francese che lui sbrocca»; «le russe no, che sono troppo alte»; «vèstiti da infermiera, a lui gli piace recitare da finto malato»); all’immagine, anche sessuale, di colui che poteva tutto si sostituì quella un po’ ridicola dell’anziano ossessionato dal sesso e variamente ricattato, o ricattabile.

Le gaffes internazionali furono sempre più orientate sulle questioni di genere, un epiteto irripetibile dedicato a frau Merkel fece il giro dei giornali; quando disse a Rosy Bindi «lei è più bella che intelligente», ricevendone in cambio un impeccabile «non sono una donna a sua disposizione», si capì che il leader non era più in sintonia con la cultura che stava cambiando.

Errori politici a parte, e fatta la tara dell’indubbia persecuzione giudiziaria, il vento popolare gli si ritorse contro soprattutto a partire dalle défaillances del suo machismo: da più o meno nascostamente invidiato a compatito e preso in giro. I suoi supporter erano sempre più imbarazzati a lanciarsi in difese di cui non erano convinti; Karima al Mahrug detta Ruby, diciassettenne che dimostrava vent’anni, ci mise sopra la pietra tombale. Le belle donne cominciavano a costargli, sì, ma in tutt’altro senso.

Le ultime notti

Un bilancio di quanto abbia influito Berlusconi sulla politica italiana in questi trent’anni lo farà chi lo sa fare, quando si saranno placati sia i servi encomi sia i codardi oltraggi; io, considerandolo come uno dei pochi politici italiani degni di diventare un personaggio letterario, non posso non notare che la sua shakespeariana (o balzacchiana) decadenza è stata parallela all’affermarsi in Italia di una più lucida e più orgogliosa autocoscienza femminile.

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Dopo il divorzio e le complicate vicende del denaro da riconoscere alla moglie, Francesca Pascale (di quarantanove anni più giovane) propose un Berlusconi pentito e monogamo, gay friendly e sensibile alle tematiche Lgbt+; un malinconico Re Lear pronto ad assumere i panni del padre nobile, o perfino della “risorsa per la Repubblica”.

Poi molta acqua è passata sotto i ponti: la Pascale si è unita civilmente con Paola Turci, l'ultima compagna Marta Fascina di anni in meno ne aveva addirittura cinquantaquattro ma era soltanto “quasi moglie”, lui attorniato da cagnolini assortiti; ai calciatori del Monza (non più del Milan, ahimé) prospettava nostalgici premi-partita.

La sola cosa che spero è che la signora Fascina si sia presa cura di lui lasciandolo sognare; che almeno nell'estremo periodo della vita lui abbia potuto rivedersi sfacciato, vincitore, conquistatore nel vecchio senso della parola – conquiste favorite dal denaro, conquiste (o acquisti) di una sera ma anche imprese erotiche di un giovane rampante e affascinante, che scarrozza per il mondo le donne più belle di Milano.

E gli auguro che siano scomparsi dalla sua mente gli episodi più umilianti, le schiamazzanti olgettine, le telefonate di Tarantini e del ragionier Spinelli.

Gli auguro che, volgendosi al passato, abbia rimosso uno stralcio di verbale come questo: «l’imputata Minetti Nicole dichiara di essersi fermata ad Arcore per molte notti e di aver fatto sesso col presidente in quanto innamorata di lui; ma richiesta di precisare in quale periodo debba collocarsi questo suo amore, risponde di non potersi ricordare con esattezza quando».

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