Sabato, domenica e lunedì. Una campagna elettorale, peraltro di successo – i Cinque stelle crescono nei sondaggi, probabile effetto di una quota di indecisi che cominciano a decidere – rischia di diventare una commedia di Eduardo De Filippo, benché il tema della pace in Ucraina sia serio e i successi di Kiev contro l’armata russa meritino riflessioni meno urlate.

Invece sabato scorso, ospite della festa del Fatto quotidiano a Roma, Giuseppe Conte ha pronunciato un «no» all’invio di nuove armi. Anzi, lo ha fatto pronunciare in coro dal pubblico e ha aggiunto: «Siamo contro, l’Italia non può sopportare un nuovo sforzo bellico, siamo in recessione. La furia bellicista non funziona».

Il giorno dopo, domenica, su Rai 3 al programma In Mezz’ora, ha aggiustato il tiro e il no è diventato un “menomale che abbiamo votato sì”: «Non ci si può difendere con le mani nude da una tale aggressione». Quindi ha auspicato addirittura la «riconquista di tutti i territori occupati dai russi».

Cambiare idea

Infine il lunedì l’inversione a “U” è stata completata. «I progressi delle forze ucraine sono un’ottima notizia e dimostrano che Kiev, grazie all’enorme afflusso di armi dall’Europa e dagli Stati Uniti, è in grado di respingere l’invasore russo», ha detto in un’intervista al Quotidiano nazionale, «per questo abbiamo acconsentito agli aiuti. Adesso la priorità è la pace». Dunque basta armi, anche se la valanga delle armi inviate sta dando la possibilità a Zelensky di fermare o forse addirittura respingere Putin?

Sul tema, lo stile zigozago del presidente M5s si è già dispiegato nei mesi scorsi. Il primo marzo, pochi giorni dopo l’invasione, il Movimento ha votato sì all’invio di armi alla resistente Ucraina.

Poi ci ha ripensato e si è schierato contro il sostegno militare. Il 18 maggio non ha votato alla Camera una mozione di Sinistra italiana che chiedeva la sospensione dell’invio di armi. A giugno è circolata la notizia di una mozione dei senatori grillini per lo stop alle armi (la notizia ha fatto da detonatore alla scissione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio), ma alla fine il testo non c’è stato e anzi, il 21 giugno, il Movimento 5 stelle, con qualche mal di pancia, ha votato sì alle comunicazioni del premier, in vista del Consiglio europeo, in cui si ribadiva che l’Italia avrebbe continuato a «sostenere» l’Ucraina in ogni modo: armi comprese.

L’addio alle armi

Del resto l’addio alle armi di M5s, dal momento in cui è stato deciso, non ha mai avuto un effetto concreto nelle azioni parlamentari ma è stato usato come segnale di una scelta narrativa per il nuovo posizionamento politico grillino, in progressivo allontanamento dal governo Draghi e dall’ex alleato Pd, irremovibile difensore della necessità di difendersi da parte degli ucraini.

La prima risoluzione approvata dalla Camera, con il sì grillino, autorizza gli invii del governo fino al 31 dicembre. Fino a oggi sono stati varati quattro decreti interministeriali (firmati dai ministri della Difesa, dell’Economia e degli Esteri). La lista dei materiali inviati è secretata ma riferita al Copasir dal ministro Lorenzo Guerini. Secondo fonti della Difesa a ora non è in vista un nuovo decreto. Notizia che trova una indiretta conferma al Copasir, dove non risultano nuove convocazioni a breve.

Scintille fra Letta e Meloni

Questo non significa che un altro decreto non possa maturare nelle prossime settimane. Se la scelta toccasse a un nuovo esecutivo delle destre sarebbe una prima grana: FdI e FI sono favorevoli all’invio di armi, la Lega no, al netto degli ondeggiamenti di Matteo Salvini.

Lunedì al confronto fra Giorgia Meloni ed Enrico Letta sul sito del Corriere della Sera, la leader FdI ha provato a rovesciare sull’avversario lo stesso problema: Sinistra italiana, alleata del Pd, non ha mai votato sì. Ma Letta ha ricordato che fra il suo partito e quello di Nicola Fratoianni non c’è un accordo di governo. Fra FdI e Lega c’è.

In ogni caso l’esecutivo Draghi è titolato a varare un nuovo invio. E questo accade, o accadrà, sulla base delle richieste avanzate dagli ucraini in sede bilaterale, cioè nel rapporto diretto con l’Italia, o al tavolo di coordinamento di Ramstein, nato a fine aprile per decidere i primi aiuti al governo Zelensky sull’onda dell’emergenza bellica. Se su quel tavolo Kiev porrà una richiesta di armi specifiche, la Difesa italiana procederà alla ricognizione, alle verifiche e in caso alla scrittura del decreto.

No ai soldi già approvati

Altra partita invece è l’annuncio di Conte di un altro no grillino, quello alle spese militari. La promessa è che venga pronunciato oggi alla Camera, alla riunione della commissione Difesa. «Vogliono approvare 10 miliardi di investimenti militari. Non lo permetteremo», dice l’ex premier.

Replica Enrico Borghi, componente Pd del Copasir: proprio il governo Conte II ha riunito la spesa della Difesa in sei programmi di investimenti, e i Ddp, Documenti programmatici pluriennali, sono gli strumenti attuativi «tutti votati come un sol uomo dai grillini». I programmi che vanno all’esame sono «già trasmessi e assentiti dal parlamento».

La commissione darà in ogni caso un parere non vincolante «senza nuovi e aggiuntivi impegni di spesa», ma non è questo il punto. Il punto è che il parere viene dato, spiega Borghi, «rispetto a quanto già finanziato con le leggi di Bilancio, in particolare con i fondi pluriennali per la difesa finanziati sia dal governo Conte II che dal governo Draghi».

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