Enrico Letta ha perso il confronto televisivo con Giorgia Meloni, il primo e forse l’unico della campagna elettorale (sul sito del Corriere della Sera). Forse non poteva vincere: ha scelto il format che a Giorgia Meloni serviva di più, il duello a due che la legittima come volto unico della destra, mentre Matteo Salvini e Silvio Berlusconi oggi fanno perdere più voti di quanti ne trovino; il Corriere è il giornale che da mesi legittima l’ascesa di Fratelli d’Italia, incoraggiandone la svolta moderata; in tv Meloni ha molta più esperienza di Letta. Quindi il destino era segnato. Ma Letta ci ha provato, in coerenza con il tentativo del Pd di trasformare la campagna elettorale nella scelta “o noi o loro”.

Letta ha impostato tutto il dibattito, così come le ultime settimane, per combattere una Giorgia Meloni immaginaria, non quella che aveva davanti, cioè quella degli eccessi del passato, della fiamma tricolore, delle urla in piazza, non la versione istituzionale di oggi.

Poiché Meloni non evoca gli argomenti o i riferimenti che Letta considera problematici (tipo la vicinanza all’Ungheria di Viktor Orbàn), allora è Letta a evocarli. E’ sempre Letta a parlare di blocco navale, non Meloni, e così via.

C’è un sottotesto a questa strategia, sui social riassumerebbero così: “Parla di fascismo senza parlare di fascismo”. Letta vuole denunciare il pericolo democratico delle destre, ma senza parlare di fascismo, di sovranismo, di populismo, senza ricordare che quando Giorgia Meloni è stata al governo l’ultima volta l’Italia è arrivata sull’orlo della bancarotta (2011).

Quando il direttore del Corriere Luciano Fontana chiede a Enrico Letta di parlare di corruzione, lui non evoca nessuno dei tanti scandali che hanno coinvolto Fratelli d’Italia, men che meno l’indagine per finanziamento illecito al partito. Parla di una “alta corte” da inserire in Costituzione che vigili sul Csm (che c’entra? Boh). E poi si fa complimenti da solo per la civiltà del confronto.

L’altra conferma che Letta ha perso sta nelle sue stesse parole: deve ribadire, forse per convincere sé stesso prima che gli spettatori, che nel dibattito sono emerse con chiarezza due idee di Italia, due mondi contrapposti e così via per metafore. Non è così.

Giorgia Meloni ha imparato a ricoprire di una pellicola presentabile anche le sue pulsioni più deteriori: i condoni fiscali diventano comode rateizzazioni, il blocco dei migranti (con quali conseguenze in termini di morti nel Mediterraneo?) la necessaria contropartita a un ordinato decreto flussi per gli ingressi regolari, l’ostilità al diritto all’aborto viene spacciato per applicazione letterale della legge in materia, l’opposizione alle energie rinnovabili come una difesa patriottica (meglio l’italico carbone che i pannelli solari made in China).

Letta sa perfettamente che sono panzane, ha chiaro quali politiche si intravedono dietro questa coltre di parole pronunciate con la finta calma di chi pare sempre sul punto di esplodere. Ma invece che grattare via la superficie di rispettabilità, Letta sceglie di rinunciare a tutte le armi della comunicazione politica e impostare il confronto su un piano puramente razionale.

 Quando Giorgia Meloni rivendica il suo ambientalismo conservatore che vuole preservare la terra patria per consegnarla intonsa ai figli, Letta le contesta il mancato supporto al CBAM, che solo pochi addetti ai lavori sanno essere il Carbon Border Adjustment Mechanism, cioè il sistema europeo per tassare le emissioni inquinanti di altri paesi. L’argomento di Letta è solido, ma incomprensibile, Meloni dice il contrario di quello che intende (la destra è contro le politiche green, ma vuole comunque passare per ambientalista). Però Meloni comunica, Letta no.

Il problema, ovviamente, non è soltanto di comunicazione: il centrosinistra non ha elaborato una vera idea di paese da contrapporre alle destre. Avrà tempo per pensarci all’opposizione.

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