Il gruppo degli ex 5 Stelle che compongono “l’Alternativa” ha deciso che per il Quirinale il nome giusto è quello di Nino di Matteo, il pm antimafia che ha indagato sulle stragi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e in seguito sulla trattativa stato-mafia.

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Nato a Palermo nel 1961, 60 anni, vive sotto protezione per le minacce dei boss: lo stesso Totò Riina, il «capo dei capi» durante l’ora d’aria nel carcere di Opera di Milano nel 2014 disse di volergli far fare «la fine del tonno». L’ordine di ucciderlo secondo alcuni pentiti sarebbe stato rinnovato anche dal super latitante Matteo Messina Denaro.

La storia

Entrato in magistratura nel 1991 come sostituto procuratore presso la direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta è poi diventato pubblico ministero a Palermo nel 1999. Nel 2019 è diventato membro del consiglio superiore della magistratura. Il Corriere della sera lo ha definito un «magistrato divisivo» perché in prima linea non solo nella lotta alla criminalità ma anche sui temi che riguardano la giustizia e la politica, da ultimo le critiche per la candidatura poi sfumata di Silvio Berlusconi al Quirinale.

Berlusconi

A novembre, Di Matteo suscitando l’indignazione di Forza Italia, ha sottolineato che il presidente della Repubblica è anche presidente del Consiglio superiore della magistratura. Senza voler esprimere giudizi politici, il Pm invitò a riflettere se Berlusconi fosse o no adatto a quel ruolo e ha ricordato che secondo quanto emerso da una sentenza definitiva su Marcello Dell’Utri, che, hanno certificato i giudici, fu intermediario di un accordo tra il 1974 e il 1992 con le famiglie mafiose palermitane. Un patto che in cambio della protezione personale e imprenditoriale di Berlusconi prevedeva il versamento di somme ingenti di denaro da parte del Cavaliere a Cosa Nostra.

Bonafede e Cartabia

Le critiche di Di Matteo prescindono dal colore politico. Nel 2019, su La 7, Di Matteo ha raccontato che a fine giugno 2018 era stato contattato dal Guardasigilli, Alfonso Bonafede (M5s), per diventare nuovo il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ma «il ministro mi fece capire che per la soluzione di capo del Dap aveva ricevuto delle prospettazioni di diniego o mancato gradimento» ha ribadito poi in commissione parlamentare Antimafia. Per lui era «gravemente incomprensibile il comportamento del ministro».

Di recente è tornato a esprimersi sulla riforma della giustizia che ha spaccato il Movimento cinque stelle. Secondo Di Matteo la politica ha rinunciato alle sue responsabilità  per «usare i magistrati come alibi» e - sottolineava Di Matteo - sta discutendo una «pessima riforma» della Giustizia presentata dalla ministra Marta Cartabia, che «rischia di mandare in fumo tanti processi». Nel dibattito alle Camere sono arrivati aggiustamenti ma «Io continuo a ritenere che nonostante i correttivi, complessivamente la riforma Cartabia sia una pessima riforma».

Il gruppo di fuoriusciti del Movimento 5 stelle ha deciso così di abbandonare la candidatura di Paolo Maddalena, ex vice presidente della Corte costituzionale, per puntare tutto sul magistrato simbolo del processo stato-mafia.

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