L’aggressione a tre ragazzi in un fast food a Catania, con motivazioni omofobe, ha riportato al centro dell’attenzione mediatica e politica un nodo giuridico irrisolto: in Italia non esiste un’aggravante specifica per l’omotransfobia. La Procura ha parlato di «finalità di discriminazione omofoba». Ma che valore ha, questa espressione, sul piano giuridico?

Lo abbiamo chiesto a due esperti di diritto penale: Luciana Goisis, docente di diritto penale nell’università di Sassari e Marco Pelissero, ordinario di diritto penale presso l’Università degli Studi di Torino, che aiutano a decifrare la distanza tra ciò che si dice nei tribunali e ciò che è scritto nel codice penale.

Forzatura non risolutiva

«Non ho contezza precisa della ricostruzione giuridica della Procura», premette Luciana Goisis. «In linea generale, si può dire che, in assenza di una legge anti omofobia in Italia, la magistratura riconosce talvolta l’aggravante dei motivi abietti e futili in caso di odio omotransfobico».

Ma non si tratta di un meccanismo pensato per i crimini d’odio. È una forzatura legittima, ma non risolutiva. «Tuttavia i motivi abietti e futili non sono in grado di esprimere il disvalore penale del crimine d’odio omotransfobico, che andrebbe ricondotto nell’alveo della circostanza aggravante di cui all’art. 604-ter c.p., la cosiddetta aggravante dell’odio razziale, etnico, nazionale o religioso».

Anche Pelissero conferma questa difficoltà di inquadramento: «Non era stata introdotta con il disegno di legge Zan. Non c’è una norma specifica. Ci sono aggravanti che fanno riferimento ad altri motivi di discriminazione, razziale o etnica, ma non omofoba».

Eppure, l’etichetta di “aggressione omofoba” entra comunque nel lessico delle indagini e del dibattito pubblico. «La Procura può dire: “I fatti sono motivati da una discriminazione omofoba”. Può partire da questa ricostruzione per avviare le indagini. Il punto è come inquadrare il fatto dal punto di vista giuridico, e non c’è un’aggravante specifica. Certo, dal punto di vista mediatico, qualcuno dice: “C’è l’aggravante omofoba”, e fa pensare che esista davvero. Ma non c’è», spiega Pelissero.

Motivi abietti

In questi casi, come ricordano entrambi i docenti, l’unico strumento applicabile è quello dei motivi abietti, previsti dall’articolo 61 del Codice penale. Ma è un rattoppo, non una norma pensata per riconoscere il peso simbolico e morale di certe violenze.

«È l’unico che possiamo applicare», dice Pelissero. «Non tanto i motivi futili, ma quelli abietti. Che significa? Una condotta che appare vergognosa, inaccettabile secondo i principi morali accolti in un certo momento dall’ordinamento giuridico. Il motivo futile, invece, si ha per esempio quando c’è un diverbio in strada e uno uccide l’altro: c’è sproporzione tra il reato realizzato e la ragione che lo ha portato a commetterlo. Mentre il motivo abietto è l’unico applicabile in casi di odio omotransfobico».

Ma questa interpretazione non è garantita per legge, e dipende dalla sensibilità del singolo magistrato. «Se il ddl fosse legge, avremmo una norma che dice: se è provata la connotazione omotransfobica, si applica quella circostanza. Ma oggi bisogna verificare se la motivazione omotransfobica può rappresentare un motivo abietto o futile. Cioè se si tratta di una violazione dei principi morali e delle regole fondamentali del contesto sociale attuale. E lì entra in gioco la sensibilità del singolo giudice. Se abbiamo un giudice che non lo ritiene tale, non lo applica».

Il ddl naufragato

Il riferimento costante è al ddl Zan, il disegno di legge naufragato in Senato nel 2021. Per Goisis: «Serve una legge di riforma di questa aggravante che la estenda alle discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, oltre che del genere e della disabilità, come in parte prevedeva il ddl Zan».

Una riforma, quella proposta, che non solo darebbe strumenti più chiari ai giudici, ma garantirebbe pene più severe. «L’applicazione di una pena più grave rispetto al reato base. L’aggravante non è che risolve il problema. Il motivo abietto o futile comporta un aumento di pena fino a un terzo, mentre il ddl Zan era rapportato all’articolo 604-ter: prevedeva un aumento fino alla metà. Con il ddl Zan, quindi, le pene sarebbero più consistenti».

E non solo: un’aggravante specifica permetterebbe una qualificazione giuridica chiara dell’odio omotransfobico. «Una siffatta riforma dei delitti contro l’uguaglianza – continua Goisis – consentirebbe di punire adeguatamente le discriminazioni e le aggressioni omotransfobiche, dando alla vittima la possibilità di vedere riconosciuta la violazione della sua dignità e il suo diritto all’uguaglianza». 

Ma oggi questo non accade. E chi guarda dall’esterno, confonde spesso l’etichetta giornalistica con l’effettiva tutela legale.

L’analogia con “razza e etnia”

«Questo è un argomento utilizzato già prima del ddl Zan, dai tempi del disegno di legge Scalfarotto», osserva Pelissero. «La motivazione omotransfobica ha una sua rilevanza giuridica. Non mi convince che esista una disciplina più severa per le discriminazioni fondate su razza o etnia, e non per quelle legate a orientamento sessuale o identità di genere. O riteniamo che il discorso non debba essere affrontato sul piano penale perché non serve – e allora lo eliminiamo per tutti – oppure lo affrontiamo con coerenza. Ma non mi convincono due pesi e due misure. La Costituzione non fa questa distinzione. Questo è il limite».

Goisis, infine, aggiunge un punto cruciale: l’interpretazione per analogia non è ammessa. «Un’applicazione analogica dell’aggravante all’odio omotransfobico sarebbe contra legem», chiarisce, «ossia vietata in quanto il diritto penale non consente estensioni interpretative sfavorevoli all’imputato». Cosa resta allora? Cultura e formazione. È la base, se manca la legge. Pelissero lo dice così: «Una sensibilità giuridica sui temi. Ma questo, fortunatamente, c’è sempre di più. Lo vedo nei miei studenti. Un’educazione a una cultura giuridica del rispetto delle differenze è fondamentale. E credo che si debba partire proprio sul piano culturale ed educativo».

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