Il Pd è nato ufficialmente il 14 ottobre 2007, quindici anni fa, con i gazebo e le primarie in cui tre milioni e mezzo di elettori hanno consacrato Walter Veltroni segretario. La coincidenza di calendario che fa coincidere questo anniversario (dimenticato anche dal partito) con l’inizio della nuova legislatura e la vigilia della formazione (difficile) del primo governo guidato da una donna, e da una donna esponente di un movimento erede del post fascismo, dà la misura esatta della distanza da quel momento e del fallimento di quel progetto politico.

Il sogno di una democrazia dell’alternanza, di un partito inclusivo delle migliori culture della Prima Repubblica, ma in grado di rispondere alle sfide nuove, ha lasciato il posto a quindici anni di dissipazione. In questo periodo lungo, il Pd è stato al governo per undici anni su quindici, ma è stato governato da altri. È stato al potere, ma nel segno dell’impotenza. E ha contribuito ad aggravare la più generale crisi di rappresentanza e crisi di leadership, la questione democratica italiana.

Undici giorni dopo la nascita del Pd, il 25 ottobre 2007, è scomparso a Roma, a 81 anni, uno degli intellettuali che più si erano spesi per raggiungere quel risultato, lo storico Pietro Scoppola. Un maestro che ho conosciuto bene negli anni dell’università alla fine degli Ottanta e poi nei primi Novanta, quando cercava una via di uscita democratica a quella transizione del sistema politico che aveva traformato l’Italia in un laboratorio per tutta l’Europa.

Lo faceva con la distanza dell’uomo di studio e l’impegno civile che lo aveva sempre mosso. «Sì, la politica mi ha appassionato, come disegno per il futuro, come valutazione razionale del possibile e come sofferenza per l’impossibile, come aspirazione a un’uguaglianza irrealizzabile che è tuttavia il tormento della storia umana. Mi ha interessato la politica per quello che non riesce a essere molto più che per quello che è», aveva scritto in un libretto uscito postumo (Un cattolico a modo suo, Morcelliana).


Il nuovo numero di Politica è disponibile in edicola e in digitale da sabato 15 ottobre


La sofferenza per l’impossibile

Ho ripreso in mano il testo della sua relazione del 6 ottobre 2006, in apertura del convegno in vista della nascita del Partito democratico cui hanno partecipato tutti i notabili dell’epoca, a Orvieto, nel palazzo del Capitano del Popolo, un nome che oggi avrebbe scatenato la nostra curiosità di cronisti e che allora ci ha lasciato indifferenti. Ricordo un pomeriggio freddo, gli ospiti e i giornalisti sferzati da un vento gelido.

In quelle nove cartelle dedicate alle «ragioni del Partito democratico», di cui all’interno pubblichiamo una parte, Scoppola collocava la nascita del nuovo partito in un quadro di crisi, che fino a quel momento non era ancora visibile. Non c’era stata ancora la grande recessione, la globalizzazione era ancora una parola d’ordine positiva, il primo iPhone è stato messo in commercio dalla Apple tre mesi dopo. Eppure, come ogni grande pensatore democratico, Scoppola era un critico della democrazia, coglieva tutta la fragilità di quella che sembrava la vittoria definitiva del sistema dopo il 1989.

Il Partito democratico non nasceva perché la democrazia aveva trionfato, come immaginavano i suoi leader, al contrario, «il tema della identità si salda con quella che definirei la questione democratica», spiegava Scoppola ai dirigenti dei Ds e della Margherita, futura ossatura del nuovo partito, tra gli interventi quelli di Piero Fassino, Francesco Rutelli, Massimo D’Alema, Franco Marini, Rosy Bindi, Ciriaco De Mita, Walter Veltroni, Paolo Gentiloni, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani, Anna Finocchiaro, Barbara Pollastrini, e Romano Prodi, presidente del Consiglio.

«Il secolo XX ha segnato il fallimento delle ideologie di liberazione dell’uomo legate al mito dell’uomo nuovo costruito dal potere politico o dallo stato, ma ha segnato anche il fallimento del mito di una democrazia spontaneamente capace di assicurare le risposte giuste alle sfide della modernità, di diffondersi, di conquistare terre e popoli nuovi e di autoriprodursi. La democrazia spontaneamente non si alimenta; la democrazia non è autosufficiente. La democrazia è in crisi sotto l’effetto della società dei due terzi; è spesso schiava degli interessi costituti, degli interessi forti, più che interprete delle speranze dei deboli. È in crisi la democrazia americana: si riprenderà perché ha radici profonde, ma il suo disagio è evidente e sintomatico», prevedeva lo storico cattolico, due anni prima dell’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca, dieci anni prima dell’avvento di Donald Trump.

Una nuova identità

Si ritrovavano, in quella relazione, il rischio del «pianeta invivibile», ben prima che lo denunciassero i Fridays for Future, e la «libertà delle future generazioni oggi chiuse, e per questo senza speranza e fiducia nel futuro, in un ferreo determinismo», l’esigenza di un «nuovo modello di sviluppo». Il contrario della grigia e burocratica gestione dell’esistente. La richiesta di un nuovo potere.

«La crisi della democrazia è anche problema di classi dirigenti», aggiungeva Scoppola. «Il vecchio secolo ci ha consegnato un problema irrisolto di selezione delle classi dirigenti e di leadership. Ci sono ottimi professionisti sulla scena, ma in Italia abbiamo il massimo di autoreferenzialità del sistema politico. La forma partito che abbiamo ereditato dal secolo scorso non è più idonea a selezionare una classe politica all’altezza delle nuove sfide, per questo la domanda di partenza è: quale è il retroterra sociale e culturale del partito democratico?».

«Crisi di identità e questione democratica, determinismo e libertà, paura e speranza di futuro, solitudine e amicizia, sono le dicotomie su cui il partito nuovo dovrebbe costruire la sua identità. Le sfide per la democrazia oggi riguardano la possibilità di restituire fiducia nella capacità costruttiva della politica, nell’utopia democratica, di restituire a quest’ultima nuovo vigore», concludeva Scoppola, denunciando il ritardo del progetto e il rischio del fallimento: «Le speranze cresciute in questi anni, che hanno dato vita a un significativo protagonismo femminile, a una mobilitazione di popolo che ha coinvolto milioni di donne, di uomini e di giovani, possono diventare nuove delusioni».

Il dopodomani

Il Vaffa day di Beppe Grillo a Bologna sarebbe stato un anno dopo, settembre 2007, ma l’onda che stava salendo dal paese non aveva trovato posto negli interventi dei dirigenti del partito, soltanto l’anziano storico, già malato, aveva provato a guardare oltre all’oggi e al domani, fino al dopodomani, come aveva scritto il suo amico Aldo Moro in una delle lettere dal covo delle Brigate rosse.

Gli altri, i capi del futuro Pd, non avevano capito nulla, o quasi: pensavano che il progresso fosse illimitato, che il futuro sarebbe stato dei progressisti e non dei conservatori, che la modernità andava gestita e non governata, che la democrazia fosse una conquista acquisita una volta per sempre.

Noi che viviamo nell’oggi in quel dopodomani siamo immersi. In questo ottobre il nostro presente fa un altro salto, con Giorgia Meloni premier, in coincidenza sinistra con il centenario della Marcia su Roma. La crisi della democrazia, non solo in Italia, si è nel frattempo allargata e aggravata. E di pari passo, la crisi della leadership. Come dice Arturo Parisi, nel dialogo pubblicato nelle pagine centrali di questo secondo numero di Politica a proposito del partito nato quindici anni fa, «il Pd è un partito pieno anche troppo di dirigenti, ma privo di un gruppo dirigente».

Democrazia (dal basso) e leadership sono due facce della stessa medaglia. Non c’è rappresentanza democratica senza una democrazia in grado di decidere. È il baco che avvelena l’Europa e il sistema politico italiano che in questi quindici anni è affondato tra ipotesi di governi tecnici, governi dei migliori, governi dei cittadini (uno vale uno), governi della rottamazione, larghe intese, piccole intese, unità nazionale. Senza mai trovare un punto di caduta, l’apertura di una nuova fase o di un ciclo politico.

Giorgia Meloni

La novità Giorgia Meloni non sembra fare eccezione, a giudicare dalle prime battute. Il ritorno al governo del centrodestra arriva nel momento più cupo della nostra storia, con la minaccia di una apocalisse nucleare finita nelle analisi strategiche come evento possibile, o addirittura probabile. Il cambio avviene all’insegna della conservazione, della chiusura. Una cappa asfissiante di cui la lite sui ministri (un classico della formazione di ogni governo) è solo l’indizio più banale.

A questa svolta (vera o presunta) è dedicato il secondo numero di Politica, in edicola e digitale dal 15 ottobre. In apertura Alessandra Sardoni racconta il 2019, anno decisivo per la caduta di Matteo Salvini e la salita di Giorgia Meloni, quando il Pd ha rifiutato di seguire il consiglio di Emanuele Macaluso, tornare alle urne, o non ha potuto farlo, vincolato dalla fedeltà all’Europa e al Quirinale. Sofia Ventura si interroga sull’avvento della nuova leadership, con la dediabolizzazione della leader di Fratelli d’Italia operata dai media.

Paolo Gerbaudo analizza la sua ideologia nazional-conservatrice di protezione anti globalista. Marco Follini, nella sua rubrica sulla “Origine della specie”, si chiede di quali e quante sfumature di peronismo sia composta la nuova leadership. Gilles Gressani, direttore di Le Grand Continent, ipotizza l’Italia come laboratorio di un “tecno-sovranismo”, «la sintesi tra l’integrazione di logiche tecnocratiche, l’accettazione del quadro geopolitico dell’Alleanza atlantica e della sua dimensione europea, con l’insistenza su valori iperconservatori e istanze neonazionaliste». Che spiazza il Pd: essere il partito dell’establishment non basta più, sta nascendo un rivale pericoloso su questo terreno, a destra.

Nella seconda parte del giornale ci interroghiamo sulla questione del Partito democratico con Arturo Parisi, l’inventore dell’Ulivo e delle primarie, il nucleo fondativo del Pd. Giuseppe Genna lancia la proposta di un cambio del nome che rimetta al centro la crisi del sistema e la ricerca di una nuova soluzione, con l’indicazione (poetica, dunque politica) di alcune tesi congressuali: Democrazia. Roberto Brunelli, Elena Testi e Costanza Savaia indagano sulle nuove figure di leadership democratiche: i Verdi tedeschi, il caso Verona con una nuova generazione alla prova, la rivolta delle donne e dei giovani in Iran. Max Collini ci riporta con ironia nell’Emilia non più rossa, semmai rosé. In finale, Daniele Mencarelli prosegue con il suo Diario presente, viaggio in un’Italia solo in apparenza minore, alle prese con la “favola nera” dell’ottobre 2022.

Una favola nera, non soltanto a segnalare l’origine della nuova leader. Rappresentanza e leadership sono due facce della stessa crisi, che si agita per così dire dal basso e in alto. Quello che manca è il centro, il cuore, l’Italia di mezzo. L’assenza di protagonismo della società civile, anestetizzata o strumentalizzata (vedi le manifestazioni per la pace, schierate per assurdo una contro l’altra), l’assenza di intellettuali disinteressati sul piano personale e interessati invece alla cosa pubblica.

È invece lo spazio della coscienza, di cui parlava Pietro Scoppola, a fare da antidoto al conformismo nei confronti del nuovo potere che ci accompagnerà nei prossimi mesi. Il filo tenace della responsabilità individuale, senza il quale la democrazia dei cittadini non arriverà mai. Poi, naturalmente, tutto questo deve diventare pensiero, organizzazione, mediazione: in una sola parola, un partito. Le ragioni fondative di quindici anni fa sono tutte valide, così come lo sono le assenze. La richiesta di una leadership e di una rappresentanza, nella crisi della democrazia. Lo spazio della politica da rigenerare. Come valutazione razionale del possibile e come sofferenza per l’impossibile.

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