Mercoledì sera, alla riunione della delegazione Pd al parlamento europeo, persino la vicesegretaria Irene Tinagli si era espressa contro l’ingresso della delegazione dei Cinque stelle nel gruppo dei Socialisti e democratici. Nella sostanza, almeno. Nella forma in molti, come lei, avevano espresso «dubbi», «cautele», «perplessità».

La più esplicita era stata Simona Bonafé, ma in suo soccorso era arrivato anche Giuliano Pisapia, critico sulla cultura giustizialista di M5s e poi incline «allo stato di diritto». A loro il capodelegazione Brando Benifei aveva risposto, secondo le ricostruzioni, ammettendo che la decisione dipendeva dal Pd nazionale, non restava che mettere agli atti gli eventuali malumori. Favorevole all’operazione invece un appassionatissimo Pietro Bartolo, il medico dei migranti a Lampedusa, ma anche Paolo De Castro, Massimiliano Smeriglio e Andrea Cozzolino.

Con queste premesse ieri il segretario del Pd Enrico Letta è volato a Bruxelles. A ricucire, a fare «una bella discussione, utile per tutti», ad assicurare che nulla è deciso ma che lui «non ha nessuna pregiudiziale negativa» all’ingresso dei pentastellati nella delegazione S&D, anche se alcuni ancora la confondono con il Pse, il Partito socialista europeo.

Nel Pd «ci si confronta e si valutano i pro e i contro», ma la sua opinione – da segretario, s’intende – è che se la palla andasse in buca, «sarebbe un’evoluzione positiva», visto che «l’orizzonte è il contrasto dei sovranisti e dei nazionalisti, tanto in Europa quanto in Italia», e con i Cinque stelle il Pd governa in Italia e in qualche misura anche in Europa. Culla di questa collaborazione è proprio Bruxelles dove nel 2019 il voto dei grillini alla presidente Ursula von der Leyen ha segnato la fine del governo gialloverde e la premessa del governo giallorosso.

Un lungo corteggiamento

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La riunione di ieri, a cui ha partecipato anche il presidente dell’Europarlamento David Sassoli (collegato in video, è recentemente guarito da una brutta polmonite non causata dal Covid), è finita con l’impegno al silenzio da parte di tutti, i pro e i contro. Per non alimentare divisioni. «No accelerazioni no improvvisazioni», sintetizza Tinagli a un collega, la cosa è stata «comunicata male, non facciamo altri pasticci».

Peraltro la richiesta dei grillini non è stata ancora formalizzata – sarebbero divisi anche fra loro, e assillati da dilemmi materiali – e secondo alcuni eurodeputati ostili all’idea non è una pratica che si risolverà entro fine anno. Unico autorizzato a parlare con i cronisti è Benifei che parla di «gradualità» del processo, di «una discussione formale aperta con M5s che ha espresso informalmente la volontà di aderire al nostro gruppo, il cui esito non è predeterminato». In serata Letta rinforza le rassicurazioni: «Noi non metteremo veti se loro lo chiederanno, in virtù di un europeismo che pare ormai acquisito». Ma al Nazareno si sa che la questione riguarda soprattutto ii grillini. «Non saremo noi a spingere», spiega ancora Letta, «Su questa base costruiamo posizione unitaria nel partito».

In realtà però è molto tempo che i grillini, al netto della componente sovranista ormai fuoriuscita, lavorano di concerto con la delegazione Pd. Qualche volta hanno anche convocato riunioni congiunte su singoli dossier.

Nulla ancora sarebbe deciso. Ma Carlo Calenda ha preso la palla al balzo per dare l’addio a S&D e annunciare il suo ingresso nei liberali di Renew Europe: il sì ai grillini in S&D per lui è «un grave errore politico che tradisce il mandato degli elettori».

In prospettiva vede «un gruppo unico con un movimento che ha combattuto l’euro e governato con sovranisti. Pessima scelta». Non politica, a suo parere, ma per «una questione di cariche di metà mandato e di peso delle delegazioni. Sorprende il silenzio assordante dei riformisti del

Pd».

Gli risponde Nicola Zingaretti, il presidente della regione Lazio tutt’altro che pregiudizialmente ostile all’ex ministro: «Calenda sbaglia nel metodo e nel merito. Non se ne può più di diktat e veti e voglia di dividere a volte a prescindere dal confronto. Di questo modo di procedere, dividere, picconare, frammentare e distruggere gli italiani non ne possono più».

Ma il punto sollevato da Calenda è delicato: quello del rinnovo delle cariche nell’Europarlamento, rito che si celebra a metà mandato. E cioè il prossimo gennaio. Gli otto voti grillini non sono determinanti per la rielezione di David Sassoli alla presidenza (anche se il loro ingresso nella delegazione italiana la farebbe diventare la prima, superando quella spagnola che ha 21 eletti). Determinanti sono proprio i voti dei liberali.

Sassoli non si tocca

Prima di partecipare alla riunione dei suoi, Letta ha incontrato Iratxe García Pérez, la spagnola presidente di S&D, quindi ha parlato all’incontro dei 146 deputati del gruppo.

Lì ha perorato appassionatamente la causa della rielezione di Sassoli, spiegando che è «impensabile» perdere quella cruciale postazione, la seconda carica dell’Unione, visto che al vertice della Commissione c’è la popolare von der Leyen e alla presidenza del Consiglio europeo c’è il liberale Charles Michel.

Quello che decideranno i liberali dipenderà anche dal candidato del Ppe, che ancora non c’è. Intanto presto il gruppo accoglierà Calenda, grazie anche al nulla osta espresso da Matteo Renzi, che lì ha un deputato (Dario Danti) e mezzo (Sandro Gozi, suo grande amico, ma eletto dalla Francia). Ma forse Renzi un problemino di leadership se la sta ponendo.

Ieri nella sua eNews l’ex premier ha segnalato che dopo il tour fra Bruxelles e Parigi, sta lavorando «a un grande progetto politico con Italia viva e Renew Europe. Sono molto felice perché, quando si voterà nel 2023, Renew Europe, il partito europeo nato dalla intuizione di Macron, avrà una casa anche in Italia». Non sarà il partito di Calenda, par di capire.

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