Ribaltone. Silvio Berlusconi introdusse e forse coniò un nuovo termine politico per indicare il cambio di maggioranza parlamentare che sancì la fine dell’alleanza di centrodestra che lo aveva visto trionfare alle elezioni politiche del 1994 dopo la sua celebre discesa in campo.

La vulgata vuole che la Lega nord tolse il sostegno al Cavaliere in virtù dell’avviso di garanzia che gli venne notificato in occasione del G7 in svolgimento a Napoli.

In realtà, si trattava di un invito a comparire recapitato dalla Guardia di finanza per l’inchiesta “Telepiù” durante le giornate della conferenza sulla criminalità tenutasi nella capitale partenopea qualche mese dopo.

Al netto della discutibile scelta giudiziaria di operare con quei metodi e dello scoop giornalistico centrato dal Corriere della Sera, che riportò in prima pagina una notizia anticipata da “fonti giudiziarie”, il punto politico è che il primo governo Berlusconi cessò di esistere per una decisione di tipo elettorale di Umberto Bossi.

Il senatur ruppe precipuamente perché Forza Italia minacciava di fagocitare il Carroccio, e di farlo proprio nel profondo e sacro nord leghista. Le elezioni europee del giugno 1994 registrarono una clamorosa avanzata degli azzurri che passarono dal 21 al 30 per cento rispetto alle politiche, con un incremento da otto a dieci milioni di consensi.

Viceversa, la Lega nord perdette oltre un milione di voti e scese dal 8,4 al 6,5 per cento. In particolare, a nord del simbolico e identitario Po, le truppe leghiste lasciarono sul campo ferite elettorali cospicue.

Forza Italia alle europee del 1994 primo partito in 28 province su 30 e in tutte le regioni, mentre alle politiche del marzo precedente le proporzioni erano inverse, con la Lega primo partito nel 20 per cento dei comuni italiani tutti concentrati nelle regioni settentrionali.

Bossi toglie la fiducia 

Certamente, Bossi non celava la sua idiosincrasia verso il presidente del Consiglio, che aveva sempre mal sopportato e che la Padania – organo ufficiale del partito – aveva per mesi definito mafioso, piduista e aveva insistentemente pubblicato dieci domande circa la natura e l’origine del patrimonio economico e finanziario che da “Milano 2” lo avevo portato a Fininvest e poi palazzo Chigi.

La cautela bossiana si combinava ed era alimentata dalla netta avversione della base delle camicie verdi per l’imprenditore di Arcore, troppo distante per modi, cultura e frequentazioni rispetto ai padroncini del triveneto e della pedemontana lombarda.

Una distanza siderale con quel mondo di Forza Italia, con il cavaliere amico di Craxi (detto in forma dispregiativa) e per questo troppo legato al pre 1993, al dominio democristiano.

Un sentimento ancora forte, tanto che i leghisti nel 2022 Berlusconi non lo hanno voluto presidente della Repubblica e hanno contribuito a disinnescare la crescente candidatura quirinalizia di Pier Ferdinando Casini, che pure Salvini avrebbe votato.

Pertanto, l’ “avviso di garanzia” del 1994 ha fatto traboccare il vaso, il decreto Biondi “salva ladri” dell’estate dei Mondiali di calcio ha distratto l’opinione pubblica, e la riforma delle pensioni hanno ridato forza e fiducia alla sinistra trainata dal sindacato in uno degli ultimi sussulti collettivi, ma la vera pietra tombale per Berlusconi fu il dato del voto leghista.

Un problema per Meloni

Analogamente, la Lega del senatore Salvini rappresenta potenzialmente la spina nel fianco del governo e per la coalizione capeggiata da Meloni.

La crescente debolezza elettorale leghista è evidente e pare non trovare sosta. Alle politiche del settembre 2022 Fratelli d’Italia è giunto in testa nel 72 per cento dei comuni (62,5 al nord, 65 in Lombardia), alle regionali del 2023 in Lombardia è davanti a Salvini in dieci province su dodici.

La Lega passa invece dal 38 per cento dei comuni italiani e dall’87 per cento di quelli lombardi in cui era in testa nel 2018, all’1 per cento in Italia del 2022.

Alle regionali recenti la Lega ha perso un milione di voti sul 2018 e quasi duecentomila sulle politiche, mentre Meloni ha visto crescere i voti del partito in Lombardia di mezzo milione sulle regionali del 2018 seppure dimezzati nei confronti delle politiche.  

Le consultazioni in Lazio e Lombardia hanno rappresentato un test nazionale per rilevanza delle due regioni in termini di economia (quasi 30 per cento del Pil), la capitale politica ed economica del paese, un quarto della popolazione nazionale e altrettanto dei deputati.

Le due sconfitte potenti subite dalla Lega sono state assorbite e appannate nell’immaginario per due concomitanti ragioni: assenza di uno sfidante palese rispetto alla leadership di Salvini e la conquista della presidenza in due regioni, che mascherano il dato elettorale.

Analogamente alla catastrofe delle politiche che però per effetto del sistema elettorale e della vittoria della coalizione ha permesso alla Lega nord di conservare sostanzialmente lo stesso numero di seggi del 2018, chiudendo perciò sul nascere ogni tipo di recriminazione.

Ma le regionali hanno palesato che il re è nudo, il nord sotto assedio ha ormai ceduto e gli argini leghisti hanno capitolato alle pressioni di Meloni.

Per un partito etno-regionalista che ha fatto dell’identità territoriale la ragione di vita, di cui si è fatto sindacalista e imprenditore perorandone ragioni e interessi, è un affronto esiziale. Il nord è alfa e omega della Lega nord e non bastano le allegre gite fuori porta del senatore Salvini nel tentativo da operetta di far scordare il “Prima il Nord” in una finta Lega nazionale cui hanno creduto solo stolti e in malafede.

La Lega nord non può permettere, se vuole sopravvivere, che ci siano altre invasioni di campo. L’euforia del risultato aggregato inebria i vincitori, come sempre, e pone all’esterno una unità di facciata, sotto la quale cova la cenere del risentimento per il cortile di casa violato.

FdI ha già sottratto temi, leadership e parole d’ordine alla Lega su migranti e sicurezza, e molti, molti voti. Anche nella tana del lupo. Il nemico è in casa. Le condizioni di contesto per una crisi deflagrante esistono. Manca il casus belli. Da qui alle europee del 2024 c’è poco tempo.

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