Le riforme, ossia l’argomento del giorno e dei mesi a seguire. Eppure non esiste un testo scritto, né una proposta politica né un progetto partitico. La ministra che dovrebbe occuparsene tace. Abbiamo soltanto una vaga intenzione, una sorta di promessa elettorale che sconfina nel volontarismo dei pii desideri.

«L’importante è eleggere direttamente il capo del governo, poi si vedrà se semi-presidenziale, premierato, o presidenziale», questa la filosofia di palazzo Chigi. Ma è esattamente il contrario. Da ogni scelta dipende un sistema con effetti e conseguenze diverse, molto, persino opposte, su partiti, governo, parlamento e rapporti con i cittadini/elettori.

Si tratta di sistemi e perciò complessi, complicati a tratti, che necessitano di equilibrio, non di scelte scriteriate. Del resto basterebbe rifarsi a un grande scienziato politico, di italica etnia, Giovanni Sartori, e al suo Ingegneria costituzionale comparata, per sapere che il presidente eletto direttamente in Finlandia è diverso, in funzioni e poteri, da quello analogamente selezionato in Francia, Portogallo o Stati Uniti.

Tre domande

Per procedere seriamente sarebbe necessario rispondere ad alcune domande chiave: quali riforme? Se il governo, la presidente Giorgia Meloni, riferendosi alle “riforme” hanno in mente cambiamenti istituzionali, e perciò costituzionali, dovrebbero iniziare un processo legislativo in parlamento, incardinando una proposta in una delle due camere e procedere seguendo i dettami dell’articolo 138.

Con tutte le conseguenze politiche del caso, posto che a oggi non pare vi sia all’orizzonte una maggioranza dei due terzi – su qualsiasi tema – in grado di sostenere in assemblea un testo di riforma sino alla seconda votazione per ciascun ramo del parlamento.

La vera riforma attualmente in campo è quella sulla cosiddetta “autonomia differenziata” che però è lastricata di impedimenti politici, parlamentari e normativi, nonché sociali. E proprio in questi giorni la proposta del beffardo ministro Roberto Calderoli è stata oggetto di un duro colpo di freno circa i costi e le conseguenze economiche drammatiche su intere aree del paese, da nord a sud.

Se, viceversa, il governo e la maggioranza parlamentare (ma hanno la stessa idea?) intendono modificare il sistema elettorale, allora basterebbe muoversi senza tanti proclami variando la normativa di riferimento che appunto è regolata da legislazione ordinaria. In tal caso procedere a cambiamenti in tempo e per tempo sarebbe auspicabile anziché giungere a ridosso della fine della legislatura, come in taluni casi fatto, ma come sconsigliato anche dalla Commissione di Venezia.

Proposte fantasma

La seconda domanda cui rispondere è: le riforme per cosa? Assodato che sul versante “forma di stato” sta procedendo la Lega (nord) con il ministro Calderoli, pare che l’intenzione sia avere un “governo solido”. Ma anche su questo le esternazioni di palazzo Chigi e dei principali esponenti politici di maggioranza offrono solo riferimenti generali e obiettivi vaghi e comunque mal posti.

Se l’obiettivo è la stabilità degli esecutivi è possibile intervenire su singoli aspetti senza modificare la forma di governo, ad esempio introducendo l’istituto della sfiducia costruttiva che ben ha funzionato da deterrente per crisi al buio in Spagna e in Germania, paese che dal 1945 ha avuto meno governi della Gran Bretagna sovente assunta quale archetipo di stabilità dei sistemi parlamentari.

Per contenere il male italico del trasformismo, inoltre, bisognerebbe intervenire sul divieto di cambio di gruppo parlamentare, come avviene in Portogallo. Per rafforzare la responsabilità dei rappresentanti maggiori incentivi provengono dai sistemi elettorali con collegio uninominale, dove recarsi per raccogliere i voti e dove tornare per farsi valutare dal popolo sovrano, nel processo di rendere conto, di accountability.

C’è poi il tema della rappresentatività che si garantisce con gli strumenti del sistema elettorale, ma in certa misura anche con la forma di stato (si pensi ai due senatori per ciascun stato negli Usa). Rappresentatività che va coniugata e bilanciata con e dalla governabilità: nessuna dovrebbe mai fagocitare l’altra, in un gioco di equilibri politici, storici, culturali. In Italia quattro sistemi elettorali, più due riforme mai applicate, dal 1945 a oggi.

Ma di questo tema non vi è traccia nelle proposte fantasma della maggioranza, quasi fosse residuale o fungibile. Invece, intervenire sulle forme di selezione degli eletti è pregno di conseguenze: la soglia di sbarramento, alta/bassa, nazionale o locale, e la grandezza della circoscrizione (numero di eletti per collegio) che in letteratura è considerata la mamma di tutte le variabili perché genera effetti cruciali sulla rappresentatività agendo sulla soglia di accesso. Tema su cui la riduzione del numero di parlamentari ha agito significativamente.

Infine, l’interrogativo sul metodo: quando, come con chi approvare le riforme? I tempi, gli attori coinvolti e il metodo non sono neutrali. I partiti di opposizione non vanno coinvolti per monarchica concessione, né irretiti in base al loro grado di condiscendenza con proposte di riforme (che, come visto, non ci sono), ma è fondamentale discutere nelle sedi proprie, ossia in parlamento.

Senza evocare nuove assemblee costituenti, ossia un metodo per delegittimare le istituzioni e distrarre l’opinione pubblica. In Italia ci sono state tre commissioni bicamerali per le riforme, senza particolari esiti per mancanza di volontà politica. Tuttavia, non partiamo da zero, riforme sono state approvate – dal Titolo V al numero di parlamentari, agli eletti all’estero, al ruolo del presidente delle giunte regionali.

Elezione popolare diretta

Dati e concetti da cui far partire un eventuale processo di riforme istituzionali. Ma in realtà siamo al pourparler, insomma non esiste un testo, c’è solo un pretesto, ossia uno strumento di distrazione di massa. Si evoca solo l’elezione diretta, senza peraltro specificare se a uno oppure a due turni ovvero “come se diretta” sul modello Usa. L’impressione è che ci sia qualcuno, o forse più d’uno, che stia pensando a un bagno di folla, meglio da sostituire con un’aspersione di umiltà e di realismo.

L’incontro con la folla o addirittura un’acclamazione, quella che Norberto Bobbio, sempre di italica fattura, chiamava la «democrazia dell’applauso». «L’acclamazione – scriveva il filosofo della politica – non è un’elezione è un’investitura». Riforme sì, se servono, ma con criteri chiari, espliciti e documentati.

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