Americanista, fra i principali teorici della storia orale, nel 1999 il professore Alessandro Portelli ha scritto «L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria» (Donzelli), il saggio che ha seppellito definitivamente – anche nelle aule dei tribunali - il falso storico che vuole che i Gap dell’azione partigiana di Via Rasella non avessero voluto consegnarsi per risparmiare i civili. L’ordine di uccidere i 335 alle Ardeatine era già stato eseguito, appunto. Ha ricostruito questi fatti sabato scorso, in una emozionante lezione sotto il palazzo sotto cui ci fu la battaglia fra partigiani e nazisti. I cui muri ancora conservano i colpi di mitra.

Il ministro Lollobrigida ha parlato di «sostituzione etnica», il presidente del senato La Russa ha scambiato una compagnia di militari al servizio delle Ss per una «banda di musicisti». Poi entrambi hanno detto di non sapere quello che stavano dicendo. Non sapere, ignorare, è una giustificazione credibile per un uomo delle istituzioni?

Anche. È un segno generale della debolezza del ceto politico dirigente. Sì, da un lato è il segno di ignoranza, del fatto che nella selezione di classi dirigenti non conta il famoso merito, per dirla con il loro linguaggio.

Lei crede che anche Giorgia Meloni pensava davvero che alle Fosse ardeatine sono state uccise 335 persone perché "italiane", e non perché antifasciste?

In questo caso ha usato un luogo comune per un altro. Meloni ha ripetuto un mantra creato per le Foibe, "li hanno uccisi perché italiani". No, in questo caso li hanno uccisi perché fascisti. Ma la verità sta più a fondo: si difendono dal riconoscere, forse dal conoscere quello che davvero è successo a via Rasella e alle Fosse Ardeatine.

Perché?

Perché se Meloni sapesse che cinquanta nomi di "italiani", come dice lei, sono stati consegnati a Kappler dal ministro degli interni della Repubblica sociale italiana, di cui era esponente Giorgio Almirante, suo mentore e maestro politico, avrebbe un serio problema con la propria genealogia politica. Dovrebbe ammettere di essere stata allieva, se non erede, di una tradizione che ha consegnato degli italiani ai nazisti per essere uccisi. Non credo che Meloni possa ammettere che i suoi antenati politici sono complici della strage delle Fosse Ardeatine. Deve proteggersi dalla verità. Non può permettersela.

Quindi il tema non è che vogliono provare a riscrivere la storia della nascita Repubblica?

Certo, al fondo hanno questa esigenza politica. A loro serve una falsa narrazione su via Rasella: devono dire che i partigiani che hanno fatto quell’azione di guerra hanno rifiutato di consegnarsi, e così non hanno evitato la strage delle Ardeatine. Ma la richiesta di consegnarsi non è mai stata fatta: l’ordine di uccidere 335 persone era già stato eseguito. Devono aggrapparsi a false narrazioni per fare di via Rasella, per esempio, l'icona della resistenza come opera di irresponsabili, al meglio, o di cinici assassini. Devono decostruire la moralità della Resistenza e mettere in dubbio la moralità della Costituzione. Non è un caso che ci sia stata un’esplosione di “rovescismo storico” nel momento in cui è andata al potere una coalizione di forze politiche che non si riconoscevano nell'arco costituzionale, da Forza Italia alla Lega a An. È iniziato con il primo governo Berlusconi.

Il “rovescismo storico” come si combatte?

Primo, facendo attenzione alle parole. Quello di via Rasella non è stato un attentato: non avviene in tempo di pace, i partigiani non sono terroristi. E non è una bomba che esplode, ma un attacco militare in piena regola di sedici partigiani contro 120 poliziotti nazisti. E le Fosse Ardeatine non sono state una rappresaglia. La rappresaglia è prevista dalle leggi di guerra, quindi è anche regolata dalle leggi di guerra. E non è il caso delle Fosse Ardeatine. Lo dice il tribunale militare italiano, che stabilisce che sono un omicidio continuato. Un tribunale che peraltro poi fa salti mortali per assolvere tutti i nazisti, meno Kappler. Attorno a questa vicenda viene usato un apparato linguistico strumentale a riscrivere la storia.

Il presidente del senato dovrebbe dimettersi?

Le regole della democrazia che ci siamo dati gli permettono di essere seconda carica dello Stato. Posso anche dire che è culturalmente e istituzionalmente impresentabile, e moralmente, ma è stato regolarmente eletto dalla sua camera, in una procedura democratica. Che La Russa sia presidente del senato è la prova luminosa che la democrazia ha vinto. Vittorio Foa racconta che incontrò nei corridoi del senato Giorgio Pisanò, esponente della Repubblica sociale, e gli disse: se aveste vinto voi io sarei finito o in carcere o in campo di sterminio; abbiamo vinto noi e tu sei senatore.

Nel libro “L’ordine è già stato eseguito” lei racconta di un incontro con Gianfranco Fini. Che oggi chiede a Meloni di dirsi antifascista.

Era la fase in cui stava rielaborando la relazione di An con il fascismo. Da candidato sindaco di Roma era andato a rendere omaggio ai martiri delle Fosse Ardeatine. Mi disse che ce l'aveva con i partigiani perché non so sono consegnati. Gli spiegai i fatti storici. Lui disse: questo cambia tutto.

Invece i fondatori di Fratelli d’Italia lasciarono An, erano contro il percorso di una destra che abbandonava le sue radici.

Non volevano rinunciare a quel passato.

Ora dovrebbero togliere la fiamma dal loro simbolo?

Decidano loro. Per ora ci aiuta a ricordarci chi sono. Ma se dicessero di rinunciare a quel passato e continuassero a lavorare per il presidenzialismo, per i respingimenti dei migranti, per la legittimazione della tortura come strumento legittimo della polizia? Non dobbiamo cadere nella trappola di pensare solo al passato, alle battaglia del 1943, ma di pensarne il significato come strumento per orientarci nelle battaglie del presente.

Gli italiani li hanno votati.

Certo. Gli italiani li hanno votati perché condurre la battaglia solo sul terreno della memoria, dell'antifascismo astratto, non serve a molto. Nel senso comune è passata l’idea che “uffa ancora dopo 80 anni stiamo a discutere di fascismo”. Invece bisogna far capire che la destra di oggi propone un’amministrazione dello stato che restaura la gerarchia sociale e l’emarginazione. L’antifascismo non è una Krieg der Historiker, una guerra di storici e accademici.

La sinistra ha responsabilità?

Si, molte. Una è che subito dopo la guerra, i comunisti vengono scomunicati, si celebrano migliaia di processi contro i partigiani mentre i fascisti vengono liberati. E i comunisti, in tempi di guerra fredda, sentono di essere cacciati al di fuori della cittadinanza. E allora la sinistra ha avuto la necessità di legittimarsi in quando forza democratica e patriottica. E ha raccontato la Resistenza non come guerra una civile – all’inizio i comunisti la definivano così, poi ci sono voluti cinquanta anni per riusare questo concetto, grazie a Claudio Pavone – ma come di un movimento dell'intero popolo italiano, come se i fascisti non ci fossero. Questo riguarda l’erosione della memoria. Quanto all’erosione della democrazia, in questi ultimi trent’anni non sono stati gli eredi dei fascisti a dirci che il problema era la governabilità, che non dovevamo essere cittadini sovrani ma governabili. Con il maggioritario, la sinistra è caduta nella trappola di pensare che avevamo troppa democrazia. Invece la Costituzione è interamente pensata con una logica proporzionale. Per cambiarla ci vuole una maggioranza del 60 per cento, ma i padri costituenti non pensavano a un sistema elettorale che dava il 60 per cento a chi prende il 30 per cento dei voti. Il senso comune era proporzionalistico, ma non è stato messo in Costituzione proprio perché era senso comune. Dunque due sono le responsabilità principali della sinistra: aver fatto della Resistenza un santino e avere lasciato scoperto il fianco ai revisionismi.

Questo 25 aprile cade nel primo anno di un governo di destra radicale. In cosa è un 25 aprile diverso dai precedenti?

Tutti gli anni mi capita di andare nelle scuole a parlare di Resistenza. Quest'anno però le richieste sono state moltissime. È un 25 aprile che assomiglia a quello del 1994, il primo anno del governo Berlusconi. Si moltiplicano le richieste di studiare e ragionare. E a me pare che sia un 25 aprile di mobilitazione. E se il governo non ci vuole venire, chi ce li vuole. Il 25 aprile è una festa divisiva? Sì, come il Natale: alla messa i buddisti non ci vanno. È la festa della Repubblica, la festa di tutti i democratici. Chi parla di riconciliazione si riconcili con ai valori della Repubblica che oggi governano. Fin lì, benvenga che sia una festa divisiva.

              

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