In tutti i paesi dell’Occidente sviluppato chi cresce in condizioni di povertà ha una maggiore probabilità di essere povero anche in età adulta. Questo rischio in Italia oggi riguarda un milione e 295mila bambini, bambine e adolescenti. All’università di Roma Tre una conferenza del professore Brian Nolan analizza il fenomeno
In tutti i paesi dell’Occidente sviluppato chi cresce in condizioni di povertà ha una maggiore probabilità di essere povero anche in età adulta. È il tipo di povertà che viene definita “appiccicosa” (sticky) perché ti inchioda a quella condizione per tutto il resto della vita.
Questo rischio in Italia oggi riguarda un milione e 295mila bambini, bambine e adolescenti. Quanti di essi saranno ancora poveri una volta divenuti adulti? In che misura questa probabilità è diversa da quella cui vanno incontro i bambini di altri paesi europei? E, infine, quali sono i fattori che spiegano queste differenze?
Queste domande sono alla base della conferenza che Brian Nolan, professore emerito di Politica sociale presso il prestigioso Nuffield College di Oxford, terrà mercoledì 7 maggio, presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre (Aula 5 ore 16.30) presentando i risultati di uno studio che ha condotto con Michele Bavaro e Rafael Carranza.
Lo studio
Per la loro analisi i ricercatori hanno utilizzato i dati della indagine Eu-Silc del 2019 che offre microdati coerenti su reddito, povertà, esclusione sociale e condizioni di vita con elevati livelli di comparabilità tra paesi e periodi di tempo. Chi intraprende analisi comparative di questa natura va incontro a questioni che attengono alla attendibilità dei dati e alla misurazione e raramente può disporre di data set ideali.
Per questo motivo essi hanno fatto ricorso a due misure di povertà “proxy” (cioè che si avvicinano al fenomeno che si vorrebbe misurare): una più ristretta, ottenuta sulla base di informazioni retrospettive relative alla incapacità di soddisfare bisogni essenziali e fronteggiare difficoltà economiche da parte della famiglia di origine e una più ampia che include anche il basso livello di istruzione e la condizione occupazionale svantaggiata dei genitori.
Povertà “ristretta” e “allargata”
Quando si considera la misura di povertà “ristretta”, Danimarca, Svezia, Svizzera, Francia e Austria risultano avere le correlazioni più basse – negative, per le prime due – mente Bulgaria, Romania, Lituania, Serbia e Italia le più alte. Il nostro paese risale qualche posizione nella classifica di povertà “allargata”: in questo caso è ottava, preceduta da Spagna, Grecia, Slovacchia e poi ancora Bulgaria, Romania, Lituania e Serbia.
L’indice di persistenza risulta associato positivamente al tasso di povertà generale del paese. Si riscontra dunque un equivalente della cosiddetta “curva del Grande Gatsby” di Miles Corak: la trasmissione intergenerazionale della povertà è infatti più alta laddove i tassi di povertà attuali e quelli della famiglia di origine sono più alti.
La spesa sociale
Un altro risultato interessante dello studio è che c’è una correlazione negativa con il livello della spesa sociale (più alta la spesa più debole la trasmissione). Ciò contribuisce a spiegare l’elevato tasso di trasmissione intergenerazionale della povertà in Italia dove il costo dei figli, a differenza che in altri paesi, non ha trovato forme di compensazione efficaci, nonostante negli ultimi anni siano stati fatti alcuni passi in avanti con l’introduzione dell’assegno unico e universale per i figli a carico.
Quest’ultima, tra l’altro, è avvenuta in corrispondenza di un ritorno a una misura di sostegno al reddito dei poveri, come l’Adi (assegno di inclusione), riduttiva e categoriale. La questione, tuttavia, non è solo economica.
In Italia “mediatori” come l’occupazione e il livello di istruzione dei genitori agiscono negativamente con più forza rispetto a paesi come, ad esempio, la Francia o la Germania, anche in virtù dei persistenti bassi tassi di occupazione femminile che riguardano tra l’altro proprio le donne con titoli di studio bassi.
Va poi tenuto conto che il carattere familistico del nostro sistema di welfare scarica sulla famiglia compiti importanti, compresi quelli che andrebbero svolti da asili nido e scuole a tempo pieno, tuttora carenti nonostante l’incremento recente favorito dal Pnrr, privando i bambini più poveri, e soprattutto quelli di famiglie immigrate, di un importante strumento di socializzazione primaria e sviluppo cognitivo in aggiunta alla povertà economica.
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