Al Senato il primo no della maggioranza arriva sull’ordine del giorno firmato da Enrico Borghi, di Italia viva. Chiede di «garantire che nell’iter di revisione costituzionale del provvedimento in esame si tenga conto della necessità di approvare la legge elettorale prima dell’entrata in vigore della riforma costituzionale». Il “provvedimento in esame” è la riforma del premierato, che da martedì è in aula a palazzo Madama. Che si sappia con quale legge elettorale dovrà essere eletto il premierissimo – anzi la premierissima – è il minimo. Invece il governo dice no e la maggioranza boccia.

Per Borghi il re è nudo: il no dimostra «che nemmeno la maggioranza crede nella possibilità di portare in fondo la riforma sul premierato». E se la ministra Casellati non ha ancora nessuna proposta sul sistema elettorale è perché fra loro «c’è una spaccatura: alcuni sono per il turno unico, altri per il ballottaggio». Attacca Dario Parrini (Pd): «Perché, cara ministra, continua a rifiutarsi di garantire che il premier eletto direttamente e dotato di così tanto potere non sarà un premier di minoranza?

Basterebbe un impegno semplice: “metteremo la soglia del 50 per cento in Costituzione per l’elezione del premier” come hanno fatto tutte le democrazie occidentali dove si elegge a suffragio universale e diretto una carica nazionale monocratica. Vi mettete fuori dal costituzionalismo liberaldemocratico». Nessuna risposta. Ma la destra, è noto, sulle democrazie liberali ha i suoi dubbi.

Parte in maniera surreale il giorno primo dell’ostruzionismo sul premierato. Le minoranze alzano le barricate. Tremila gli emendamenti depositati, inchioderanno l’aula per 750 ore, fino a che non scatterà «il canguro», ovvero la tagliola che fa cadere a grappoli gli emendamenti. E lì il Pd – ora scatenatissimo – cosa potrà obiettare? Il premier Renzi calò la scure sul dibattito della sua riforma costituzionale, lo ricorda Lucio Malan (FdI). «C’erano 42 milioni di emendamenti, non tremila», replica Borghi. Il presidente Ignazio La Russa, per iniziare, sperimenta un «mini canguro». A sorpresa.

Via i senatori a vita

Si parte dall’art.1 della legge, quello che abbatte il potere del Colle di nominare i senatori a vita, «cittadini che hanno illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario», dice la Costituzione, tranne gli ex presidenti della Repubblica. È la prima prova che i poteri del presidente della Repubblica vengono toccati, cosa che la destra cerca ancora di negare. «Che vi hanno fatto?», «Qual è il danno che arrecano alla democrazia?», chiede Andrea De Giorgis (Pd).

Dario Franceschini declama i nomi dei 47 grandi italiani e italiane, che sono stati nominati nei decenni e con cui la destra vuole chiudere i conti. È l’elenco del meglio della storia italiana: c’è Arturo Toscanini, Trilussa, Luigi Sturzo, Ferruccio Parri, Camilla Ravera, Eugenio Montale, e Nenni, Eduardo (De Filippo), Bo, Bobbio, Rita Levi-Montalcini, Rubbia, Abbado, «Un elenco da ascoltare in piedi».

La lista arriva fino a Liliana Segre, sopravvissuta dal lager nazista, che sul premierato ha pronunciato parole pesanti, un parallelo con la legge Acerbo introdotta da Mussolini, che fu premessa per la chiusura del parlamento. «Cancellare i senatori a vita non ha nessun nesso con la riforma, è solo populismo dall’alto», per Peppe De Cristofaro. Se proprio la destra non li vuole nella maggioranza politica si potrebbe togliere loro la facoltà di votare la fiducia. Balboni: «Questa è un’assemblea elettiva, i senatori nominati esistono solo in Russia con la riforma di Putin».

La Russa va alla presidenza nel pomeriggio, gigioneggia con Borghi che chiede di parlare: «Stia attento a quando alza la mano», scherza alludendo al saluto romano. «Con me non c’è pericolo, sa da dove provengo»: dalla Val d’Ossola, la culla delle formazioni partigiane.

La Russa sbaglia la battuta. Ma lascia che le opposizioni si sfoghino. La forzatura della maggioranza è evidente, ma non vuole fornire altri argomenti alle opposizioni. Si va avanti fino a venerdì, poi l’interruzione dell’attività parlamentare per le elezioni. Poi, se serve, la scure al dibattito arriverà. Perché Giorgia Meloni vuole vantarsi della riforma nei comizi elettorali.

Però c’è confusione sotto il cielo della destra. Spiegano i costituzionalisti Stefano Ceccanti e Peppino Calderisi che il relatore della legge, Balboni (FdI), e la ministra Casellati «hanno avuto il mandato di far approvare la riforma così com’è». Ma si contraddicono: l’una spiega che il sistema israeliano – l’unico che ha introdotto una riforma simile, poi cancellandola – «ha fallito perché è mancato il collegamento tra elezione popolare del premier e garanzia di una maggioranza». L’altro esclude il ballottaggio ma anche che «sotto il 40 per cento dei voti non scatterebbe il premio di maggioranza». Insomma, si chiedono, «che fine farebbe il premier eletto direttamente ma privo di maggioranza?».

Piccoli canguri crescono

Per ora la maggioranza tace. Al primo voto, da sinistra in molti alzano la Costituzione, da destra alcuni fanno altrettanto, ma è uno sfottò. A più riprese scoppia il caos, il presidente annulla voti, si spazientisce. Pera chiede di interrompere i lavori: le agenzie annunciano che il premier britannico Sunak sta andando a dimettersi e chiamare le elezioni anticipate. «È l’uomo solo al comando, dovremmo sospendere la seduta e meditare». La Russa respinge.

Poi fa esplodere le opposizioni estraendo dal cilindro il primo “mini canguro”. Parrini contesta: «Una decisione grave», gli emendamenti decaduti non sono omogenei. «Presidente non vada avanti a fari spenti», avverte Francesco Boccia, e chiede di convocare per stamattina la capigruppo. Si procede per successivi inciampi fino a fine seduta. Oggi si va avanti. All’orizzonte c’è l’approvazione prima delle europee, in prima lettura (ne servono quattro sullo stesso testo). Ma c’è chi pensa che alla fine il testo non vedrà la luce. «Non sta in piedi. E quando Meloni vedrà che sta producendo effetti opposti la manderà in dissolvenza», prevede Borghi.

Gli “effetti opposti” sono la miracolosa unità delle opposizioni. E dire che non ce n’erano le premesse: Iv si è offerta di collaborare, la destra l’ha snobbata. Ha fretta, e spiana ogni obiezione, anche la più razionale. Così il testo è a rischio persino di costituzionalità (lo sostiene il presidente Pera). Per bene che vada, sarà una via crucis. Poi, fra due anni, il referendum confermativo. La premier oggi dice di scommettere sul sì. Ma chissà se alla fine ci vorrà arrivare davvero.

© Riproduzione riservata