Al Quirinale non c’è una formale consegna del silenzio sulle ipotesi di riforme costituzionali che Giorgia Meloni ha imposto nel dibattito pubblico negli scorsi giorni. Nei corridoi del Quirinale, nelle regali stanze, fra gli antichi arazzi e i quadri modernissimi di cui è museo riservato e straordinario, sul tema risuona come l’eco di un silenzio assoluto. Il presidente vuole «assolutamente» stare fuori dal dibattito sul presidenzialismo. Per non dare adito ad interpretazioni della sua opinione. E non solo perché non ha titolo formale per intervenire su materia che è del parlamento; ma perché lo stile Mattarella non prevede esondazioni dal perimetro dei suoi poteri scolpiti nella Costituzione, nessuna «ingerenza» nel lavoro delle camere.

La domanda, c’è chi ragiona a debita distanza dal Colle, per ora non è neanche se l’ipotesi di presidenzialismo, o di premierato, può modificare i poteri del Colle (la risposta è: certamente sì), ma piuttosto che ne sarebbe dell’autorevolezza del Colle se si lasciasse coinvolgere nelle fin qui indefinite ipotesi in cui si cimentano governo, maggioranza e opposizione. E poi la cosa si risolvesse in nulla, eventualità non scartabile.

Ieri Sergio Mattarella ha parlato alla consegna dei premi David di Donatello, poi si è imbarcato sull’aereo che lo ha portato in visita di stato in Norvegia. Nessuno dei passaggi dei suoi discorsi precedenti e futuri, viene assicurato, è interpretabile come riflesso del dibattito in corso sul ruolo che attualmente ricopre. Resta il garante della Costituzione che c’è, e pratica la sua pedagogia costituzionale citando in ogni discorso un articolo della Carta. In quello per il Primo Maggio, festa del lavoro, ne ha citati addirittura tre (l’art.4, l’art.36, e l’art.37).

Citazioni e stelle polari

C’è in effetti una citazione che è ricorsa due volte nei suoi discorsi, nel precedente mandato, quando le mire presidenzialiste della destra erano solo un programma elettorale. Una notissima frase del presidente Luigi Einaudi: «È dovere del presidente della Repubblica di evitare si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell'occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce».

Frase cara anche ai suoi predecessori. Si racconta che Giorgio Napolitano la tenesse incorniciata sulla sua scrivania, come stella polare a cui ispirarsi in ogni momento. Leggendola, il ragionamento è: cosa farà Mattarella per consegnare «al suo successore» le facoltà che la Carta gli attribuisce, «immuni da qualsiasi incrinatura»?

Il parlamento è sovrano. Il tema non si pone in sé per l’indicazione del premier nella scheda elettorale. C’è già stata: l’“innovazione” fu imposta da Silvio Berlusconi e seguita da Romano Prodi, è stato il Rosatellum di Matteo Renzi – grande fan del sindaco d’Italia, qualsiasi cosa significhi – a cancellarla.

Ma c’è un’ipocrisia imperante nel dibattito attuale, non tanto da parte di chi propone il presidenzialismo, ma di chi propone il premierato, o addirittura il cancellierato, presentato come una riforma soft, ed è la chiosa «senza toccare i poteri del presidente della Repubblica».

Non si può proporre che il potere di scioglimento delle camere venga condiviso dal premier eletto direttamente dal popolo sostenendo che non “toccherebbe” il potere del Colle. La famosa fisarmonica si restringerebbe, necessariamente. E in caso di conflitto, a chi starebbe l’ultima parola? Il premier non rivendicherebbe l’essere “eletto dal popolo” per prevalere su un presidente della Repubblica eletto “solo” dal parlamento?

Oggi il dibattito sul tema sembra viziato dal desiderio di Palazzo Chigi di prevalere sull’autorevolezza di Mattarella, vissuto il più delle volte come un controcanto costituzionale alle scelte disinvolte e borderline del governo. «Meloni non gioca per sé in questa legislatura», assicura il costituzionalista Paolo Armaroli, vicino alla destra, «guarda alla prossima, almeno. Perché quello che molti auspicano nella maggioranza in realtà già c’è: lei non è l’inquilina di Palazzo Chigi, ma la padrona di Palazzo Chigi. Lei non è un presidente del consiglio primus inter pares, oggi di fatto è un primus solus».

Dunque, cosa farà Mattarella nel corso di quello che si annuncia come il dibattito che accompagnerà la legislatura e impatterà necessariamente sul Colle? Non resta che attingere ai precedenti. Mattarella, da presidente, ha già vissuto il travaglio di una riforma costituzionale nel corso dell’approvazione della legge Renzi-Boschi. In quel frangente il Quirinale promulgò il famigerato Italicum, legge poi abbattuta dalla Consulta. Se non l’avesse fatto si sarebbe potuto sospettare che volesse mettersi di traverso proprio a quella revisione costituzionale. Dalla memoria e dagli archivi non si ricava nulla che faccia solo sospettare la sua opinione su quella riforma poi bocciata dal referendum popolare. Non si sa, neanche ufficiosamente, cosa abbia votato.

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