Il recente caso dell’orribile logo del ministero dell’Istruzione e del merito, lampante esempio di una bassissima istruzione (visuale) e pochissimo merito (professionale), ha riproposto due temi strettamente legati all’utilizzo delle immagini in politica. Da un lato il visivo è più forte ed efficace del verbale, ma anche più insidioso. Dall’altro, l’ostinazione degli esponenti della destra italiana a riutilizzare elementi dell’immaginario simbolico e iconografico del fascismo.

L’immagine può evocare, citare, alludere, imitare, ammiccare, attraverso aspetti e dettagli formali, stilistici, cromatici. Talvolta evidenti, talaltra volutamente sottaciuti, accennati, lasciati alle competenze del fruitore. Nell’immagine comunica infatti non solo quello che è esplicito e volutamente mostrato, ma anche dettagli, particolari, che attivano messaggi cifrati, piani del discorso e del senso secondari.

Alla scelta del soggetto mostrato, ad esempio un leader politico, si aggiunge lo stile pittorico o fotografico con il quale è ritratto, il vocabolario cromatico scelto, la sua postura, il contesto nel quale è inserito, il repertorio simbolico utilizzato, richiami e prestiti da altre culture visive. Vi sono poi una serie di elementi “esterni” di cui tener conto che riguardano il rapporto che l’immagine instaura con il fruitore.

Sempre rifacendoci al ritratto di un leader politico, la distanza alla quale si mostra, il punto d’osservazione prescelto, dove è rivolto il suo sguardo e, di conseguenza, la posizione in cui l’osservatore è relegato: superiore, inferiore, paritaria. Proprio per questa complessità e potenzialità l’immagine è da sempre uno dei linguaggi privilegiati della politica, che giocando su questa polisemia ha potuto costruire messaggi con più livelli di lettura, capaci di parlare a differenti pubblici e destinatari.

Ritratti

La fotografia, apparentemente non studiata, di Palmiro Togliatti nel manifesto del suo ritorno alla vita politica dopo l’attentato del luglio 1948 mostra un leader in salute, colto al suo tavolo di lavoro, intento a leggere l’Unità. Un leader serio e rassicurante, all’opposto dell’immagine del pericoloso comunista, agitatore di folle. Ma ai militanti che conoscono l’iconografia del movimento comunista internazionale non è difficile ricollegarla alla famosa fotografia di Pyotor Otsup del 1918 di Lenin al tavolo da lavoro mentre legge la Pravda.

Allo stesso modo, giocando su messaggi nascosti e codici condivisi, quasi subliminali, nel pieno della campagna elettorale del 1948 la Democrazia cristiana produce un manifesto in cui la caricatura di Togliatti è identica a quella con cui nel 1939  la rivista La Difesa della Razza  riproduceva l’infido ebreo a sostegno delle leggi razziali.  

L’ampio ed efficacissimo vocabolario visivo sviluppato dal fascismo ha rappresentato per l’estrema destra italiana che ancora in epoca repubblicana rivendicava e guardava con nostalgia a quella stagione politica, un  inesauribile catalogo da cui attingere. D’altronde, un partito fermo nell’elaborazione politica non necessitava di un nuovo repertorio. Fiamme, saluti romani, fasci, così come posture, segni grafici e immagini del ventennio, compaiono con deliberata continuità in tantissimi manifesti e documenti. Una nostalgia visiva che con il trascorrere degli anni e il succedersi dei partiti, dal Movimento sociale italiano ad Alleanza nazionale, sino a Fratelli d’Italia, non è andata diminuendo. Molteplici sono i manifesti del Msi con Almirante al balcone con il braccio destro alzato. Ma anche Fini e la stessa Meloni, solo per limitarci ai segretari, sono apparsi in pose ed espressioni che appartengono a una iconografia ben connotata, dai significati inequivocabili.

Immagini che tornano

La fiamma che imperitura arde ai piedi del simbolo di FdI, in base al principio che «le radici profonde non gelano», citazione di Tolkien tanto cara a Giorgia Meloni, è solo il caso più eclatante. Tantissime sono le citazioni, i plagi, i riutilizzi di temi e immagini fasciste, della repubblica sociale e, in alcuni casi, anche del nazismo, come minuziosamente documentato da Luciano Cheles in un volume di prossima pubblicazione per Viella, da cui le immagini che illustrano l’articolo.

E se in alcuni casi l’apologia è smaccata – il presidente di una azienda pubblica che riprende parte del discorso di Mussolini o alcune dichiarazioni di La Russa – in altri è camuffata, mistificata, nascosta. Salvo poi smentirne l’intenzionalità, appellarsi a fortuite coincidenze o, peggio ancora, accusare chi le fa notare di malafede o di caccia ai fantasmi.

In conclusione, restano aperti alcune ipotesi su cosa spinga a nascondere due fasci nel logo di un ministero della Repubblica italiana. Se questa costante e ossessiva azione di ripresa e riproposizione dell’estetica e dell’immaginario simbolico del fascismo, spesso in maniera dozzinale, risponda all’intenzione di immettere nella cultura visuale e politica dell’Italia del ventunesimo secoli germi e modelli di quella stagione, riscattandola almeno in parte.

O se rappresenti invece un modo per parlare in codice e mandare messaggi rassicuranti alla propria base identitaria, alla cerchia ristretta di coloro che secondo la mitologia del neofascismo italiano, hanno resistito allo stigma, rimanendo fedeli all’idea.  O, ancora, che il nucleo storico dei dirigenti del Msi formatosi negli anni Settanta e Ottanta, inaspettatamente assurto alla guida del paese, così come i loro comunicatori, siano prigionieri dell’immaginario e della cultura visiva di cui si sono nutriti. D’altronde una comunità politica che trova normale dedicare parchi e luoghi pubblici alla memoria di Rodolfo Graziani e Italo Balbo è chiaramente rimasta al pantheon ideale del fascismo e ai suoi eroi e miti. E, fra le tre, è sicuramente questa l’ipotesi peggiore.

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