«Faccio un appello al governo. Si fermino prima che sia troppo tardi» L’autorevolezza e la sopravvivenza stessa della Rai con i suoi 12mila dipendenti è a rischio perché Giorgia Meloni si è prestata a darla in pasto alle ambizioni di Matteo Salvini, sostiene Stefano Graziano, capogruppo Pd in commissione di Vigilanza.

Pier Silvio Berlusconi ha chiesto che la Rai torni a fare servizio pubblico. Non ne sta più facendo?

Ci fa piacere che Berlusconi sia giunto a condividere la nostra opinione, anche se per ragioni differenti. Noi diciamo da tempo che il servizio pubblico deve continuare a esistere in virtù di pluralismo e libertà d’informazione, due caratteristiche che vanno garantite con risorse adeguate.

La Rai sta venendo meno alla sua ragion d’essere e a quel che stabilisce il contratto di servizio?

Mi sembra evidente il rischio reale che la Rai venga meno alla sua mission. La ragione sta innanzitutto nelle risorse: abbiamo votato un contratto di servizio che senza un finanziamento adeguato non può essere realizzato. Su questo abbiamo provato a presentare emendamenti, anche per avere una migliore valutazione della qualità dei programmi.

Lo share non sta premiando le nuove idee della destra. Su cosa sono più carenti i palinsesti dei vertici meloniani?

I palinsesti sono un disastro nel loro contesto. Lo dicono i dati rilevati dallo studio Frasi, che registrano una caduta complessiva dello share. Mi pare che i punti dolenti in particolare su approfondimento, prime time e day time.

Perché l’approfondimento di questa Rai è così lontano dagli standard che ci si aspettano dal servizio pubblico?

Davanti al fatto che se ne vanno nomi come Fazio, Annunziata, Gramellini, Berlinguer e Augias, mi pare che la risposta della Rai sia stata troppo di sufficienza. Penso ci voglia un po’ più di umiltà per capire quali siano le difficoltà per poi realizzare le condizioni ideali per restituire un prodotto di qualità. Non è solo questione di occupazione delle poltrone, bisogna capire chi sa fare share e portare pubblicità.

A proposito di condizioni adatte: sembra che le reti commerciali abbiano in questo momento le carte migliori per far fiorire trasmissioni d’informazione. Cosa le rende più attraenti e fruttuose del servizio pubblico?

A essere rilevanti non sono solo i programmi ma anche le persone che li conducono. Una personalità non si costruisce in un giorno o in un mese: bisogna sperimentare con intelligenza, qui hanno stravolto i palinsesti. I vertici si sono lanciati in un gioco d’azzardo che ha provocato molti danni.

Ma venendo meno alla ragion d’essere del servizio pubblico, non si rischia di dare un alibi a chi vuole tagliare il canone?

Il lavoro che il governo e il management stanno facendo ha esattamente quel risultato. Non c’è una visione per il servizio pubblico. Se pluralismo e libertà d’informazione non vengono rispettati bisogna tornare a spiegare alla gente perché è comunque giusto finanziare la Rai.

Cosa si rischia?

Voglio fare un appello al governo: fermatevi finché siete in tempo. Se non si interviene, la Rai diventerà la nuova Alitalia.

Per il momento il taglio di venti euro è stato compensato. Cosa succederà dopo è tutto da vedere, ma la situazione dei conti Rai è comunque disastrosa e viale Mazzini si avvia a superare il miliardo di debito. Non sarebbe opportuno avviare almeno una spending review, anche per dare un segnale ai contribuenti?

Hanno abbassato il canone di venti euro, un calo della resa di 440 milioni, non compensati del tutto dalla fiscalità generale, da dove arriveranno 420 milioni. Ma lo stanziamento è previsto per un solo anno. Non c’è nessuna azienda che può lavorare conoscendo i fondi a disposizione di anno in anno. Bisogna poter ragionare su una programmazione almeno triennale o quinquennale per trasformare la Rai in digital media company. In più la si sottopone alle pressioni del governo di turno.

Che prospettive implica questo scenario?

Se il testo rimarrà quello che abbiamo visto, quei soldi finiranno sugli investimenti in sviluppo digitale, non sulle produzioni delle trasmissioni. Se si tolgono 440 milioni dalla disponibilità di un’azienda che ha circa due miliardi di bilancio e si vincolano agli investimenti non basta una spending review, ma si rischia di dover restringere il perimetro della produzione. Dobbiamo capire cosa vogliamo fare: se si tratta di fare la digital company ci vuole tempo, ci vogliono risorse e un piano industriale che oggi ancora non c’è e un contratto di servizio che sia applicabile, a differenza di quello che abbiamo votato.

Quale dovrebbe essere quindi la fonte di finanziamento della Rai?

Non si possono tenere insieme fiscalità generale, canone e pubblicità. O si decide per un modello che faccia totalmente riferimento alla fiscalità generale come succede in Francia e si rinuncia al canone, oppure si tiene il contributo ad hoc. Altrimenti la situazione non è sostenibile, considerato l’indebitamento e il crollo dello share che provocherà una perdita ingente di raccolta pubblicitaria. L’azienda ha 12mila dipendenti: senza i soldi per la trasformazione in digital media company rischiano di finire per strada. Lo scontro politico tra Meloni e Salvini non può giocarsi sulla pelle del servizio pubblico e dei professionisti che ci lavorano per meri calcoli elettorali in vista delle europee.

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