Quella di Sergio Mattarella è la più duratura esperienza quale capo dello stato italiano, e competitiva tra casi analoghi nei regimi democratici. Il presidente Mattarella ha superato il precedente di Giorgio Napolitano che aveva “rappresentato la nazione” per un periodo simile, dopo essere stato rieletto nel 2013. Un anno e mezzo oltre la fatidica durata del mandato presidenziale, fissato a sette anni. Per convenzione e consuetudine nessun inquilino del Colle aveva mai ottenuto un secondo mandato, sebbene qualcuno lo avesse sperato e cercato, evocandolo più o meno chiaramente.

Altri non giunsero al termine del settennato: Antonio Segni si dimise per ragioni di salute, Giovanni Leone comunicò via Tv alla nazione l’intento di ritirarsi sei mesi prima della naturale fine del mandato a causa della campagna di stampa che lo indicava quale possibile coinvolto nello scandalo Lockheed, e Francesco Cossiga abbandonò qualche settimana prima, ormai in aperta battaglia con il Parlamento e i partiti, a iniziare dalla sua DC.

Mattarella come Mitterrand

Mattarella fu eletto nel 2015 (15 febbraio) per il primo mandato, che si concluse nel 2022, ma lo stallo generato dall’inconcludente capacità politica dei partiti, coniugata a un’azione “dal basso” in parlamento, condusse alla ri-elezione, prestando giuramento il 3 febbraio.

Oltre tremila giorni, quasi dieci anni, con un potenziale di quattordici, ossia il massimo registrato in una democrazia: il socialista François Mitterrand giunse all’Eliseo nel 1981 battendo il centrista Giscard d’Estaing e poi convinse nuovamente gli elettori a concedergli un secondo settennato, per un totale di 5.109 giorni alla guida della Francia.

Stessa sorte avrebbe potuto avere Jacques Chirac, ma il post-gollista che rifiutò l’alleanza con l’estrema destra di Le Pen, rimase presidente per dodici anni perché la seconda elezione coincise con l’entrata in vigore del mandato quinquennale.

Il generale Charles De Gaulle, per dieci anni a capo della Francia – prima eletto dal parlamento e poi dagli elettori – avrebbe potuto uguagliare Chirac e superare Mitterrand, ma rassegnò le dimissioni nel 1969 dopo l’esito negativo del referendum su cui aveva chiamato i francesi a conferirgli una nuova e più forte legittimazione per riformare le istituzioni.

Roosevelt, Lula e gli altri

Oltreoceano, il democratico Franklin Delano Roosevelt rimase nella storia con quattro vittorie consecutive, sebbene l’ultimo mandato finì anzitempo per la morte da emorragia celebrale, dopo aver scampato nel 1933 un attentato ad opera dell’’italo-americano Giuseppe Zangara che costò la vita al sindaco di Chicago, Cermak.

Dodici anni, 4.452 giorni alla Casa Bianca, un record mai più eguagliabile, e non più contendibile dopo la ratifica del XXII emendamento alla Costituzione nel 1951 che fissa il limite a due mandati. Nell’Europa dei presidenti prevalentemente eletti indirettamente, spicca il contesto semi-presidenziale portoghese, dove ogni presidente, anche stante la natura meno incisiva sul piano esecutivo rispetto alla Francia cui pure si ispirarono i costituenti, è generalmente rieletto: dal generale Eanes fino ai socialisti Soares e Sampaio, e ai conservatori Cavaco Silva e quello in carica Rebelo de Sousa, tutti dieci anni al Palácio nacional de Belém.

Nell’unico caso europeo analogo all’Italia, emerge l’eccezione della presidenza della Repubblica in Germania, in cui per la prima volta un capo dello Stato è stato rieletto, dieci giorni dopo Mattarella. Per Frank-Walter Steinmeir la possibilità di portare a termine il secondo mandato per un potenziale di dieci anni.

Un altro caso notevole è quello di Ignacio Lula da Silva che per otto anni ha guidato il Brasile (2003-2011) e ancora dal 2023, dunque quasi dieci anni e potenzialmente potrà arrivare a 16, se rieletto nel 2026. Una fattispecie limite poiché la Costituzione consente la rielezione per più di due mandati purché con un intermezzo.

Queste vicende chiamano evidentemente in causa due fattori: la durata del mandato e la possibilità di rielezione, cui si aggiungono il tipo di elezione (popolare o indiretta/parlamentare) e la concomitanza del calendario elettorale delle politiche. Nei regimi parlamentari la carica presidenziale è designata con voto parlamentare e ha una durata tendenzialmente più lunga di quella dell’organo legislativo al fine di sottrarre il capo dello Stato dalla querelle politica corrente e di accentuarne il ruolo di “garante” e super partes. La necessità di raggiungere quorum elevati (dalla metà delle assemblee fino a maggioranze qualificate) induce le forze politiche a trovare dei compromessi e a convergere su personalità dal profilo meno partigiano ed “estremo”.

La rielezione (caso tedesco e italiano, e prima la Terza Repubblica francese) non è vietata formalmente, ma per prassi rappresenta un’eccezione.

Nei sistemi con elezione popolare diretta, la carica presidenziale può avere un mandato di durata uguale a quella dell’esecutivo (Brasile) e comunque con una selezione che avviene indifferentemente sia in forma temporalmente sfasata che sincronica con il parlamento.

La logica è di un presidente espressione di un partito (o di una coalizione come spesso in America Latina), il cui mandato è definito, fisso quanto a durata (non modificabile dal legislativo perché non sfiduciabile in via ordinaria) e limitato in termini di rielezione (una volta in Messico, con alternanza in Cile e Brasile, due volte in Usa, ecc.).

Il presidente in parlamento

La presidenza italiana è stata concepita con riferimento esplicito e intenzionale alla Terza Repubblica francese (1870-1940), come evidente dai lavori dell’Assemblea costituente. Non avendo poteri di iniziativa legislativa, il capo dello Stato restava nella condizione di garante, tutore, della Carta costituzionale: non neutralità, ma imparzialità.

La possibilità di eleggere direttamente il presidente fu dibattuta, ponderata, considerata e infine abbandonata, scartata per un preminente calcolo politico anche per l’intervento di Alcide De Gasperi volto a dissuadere il gruppo parlamentare democristiano, e perché temeva l’elezione di un socialista (Pietro Nenni) in un contesto fortemente polarizzato in cui il blocco social-comunista potesse fare fronte comune.

La rielezione è stata messa in discussione già nei primi anni della Repubblica e in occasioni solenni da autorevoli esponenti politici ed istituzionali.

Il messaggio alle Camere di Segni nel 1963, e quello di Leone nel 1975 che prevedeva anche la riduzione del mandato a cinque anni.

E poi Napolitano nel messaggio di insediamento a inizio del secondo mandato, e lo stesso Mattarella prima della fine del primo settennato insistendo sulla logica del semestre bianco proprio per connetterlo alla non rieleggibilità.

Riforme presidenziali

Si tratta di riforme possibili, attuabili a inizio legislatura, sia per ragioni tecniche e procedurali, sia per evitare imbarazzi istituzionali legati a scadenze di mandati.

L’inserimento dell’ineleggibilità oltre un mandato e l’abrogazione del semestre bianco sono un combinato fattibile in tempi ragionevoli, sempre che la Ministra per le riforme assuma l’iniziativa e magari ascolti anche gli scienziati politici e non solo la cerchia degli aficionados.

Nella scorsa legislatura un tentativo venne fatto dai senatori Zanda e Parrini, ma la tempistica non giocò a favore, ma in passato ci aveva provato anche il liberale Aldo Bozzi sul tema del semestre bianco.

Due articoli, l’85 e l’88, da riformare con spirito costituente e visione politica, novellando anche l’articolo 84 abbassando – ad esempio da 50 a 40 - l’età per essere eleggibili al soglio presidenziale, in linea con il protagonismo delle nuove generazioni e con quanto previsto in Usa e Germania (35 in Brasile, Cile e Messico, addirittura 18 in Francia…). Il Colle vigila, il parlamento operi.
 

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