Non contento degli effetti devastanti della narrazione sovranista della Rai meloniana sugli ascolti, Matteo Salvini ha spinto e ottenuto il taglio del canone che agognava da tempo. Obiettivo storico della Lega, che propone da anni di cancellarlo totalmente, la riduzione di 20 euro del contributo per il servizio pubblico in bolletta è stata presentata ieri in conferenza stampa.

Quello che per Salvini è «l’inizio di un comportamento virtuoso» e viene celebrato dal suo viceministro e responsabile per l’editoria Alessandro Morelli come «una grande vittoria per la Lega» rischia però di restare pura propaganda elettorale in vista delle europee. Mentre infatti il governo con una mano taglia il canone da 90 a 70 euro, con l’altra prevede un fondo da 420 milioni di euro annui destinati a investimenti in digitalizzazione per il 2023, 2024, 2025. Soldi che provengono dalla fiscalità generale, cioè dalle altre tasse che pagano comunque i contribuenti. E che compensano quasi totalmente il taglio del canone riscosso in bolletta. Insomma, come fonti di palazzo Chigi si affrettano a sottolineare in serata, «il governo reputa fondamentale il Servizio pubblico radio-televisivo e intende rafforzarlo e valorizzarlo con una più corretta gestione delle risorse anche grazie alla nuova governance».

La cifra totale a disposizione di viale Mazzini si riduce quindi di appena 20 milioni, ma il tesoretto che arrivava in maniera costante dal canone sarà una percentuale molto minore dell’ammontare complessivo: a decidere l’entità degli stanziamenti annui sarà il governo di turno di volta in volta. Un quadro che riduce ulteriormente l’indipendenza del servizio pubblico dalla politica. Concedendo una vittoria apparente a Salvini, il governo di destra ha ulteriormente legato viale Mazzini al potere.

Il problema pubblicità

Una decisione che arriva nonostante l’occupazione del palinsesto da parte della destra, nelle parole dei vertici un «cambiamento della narrazione», non stia dando risultati brillanti in termini di ascolti, aggravando ulteriormente un contesto economico già molto provato. Il contributo del canone (o di quel che ne rimane, combinato con i finanziamenti pubblici) continua a fare la parte del leone nel bilancio Rai, con un valore di quasi due miliardi, ma la raccolta pubblicitaria, che vale nel complesso circa 500 milioni di euro, si era contratta nel 2022 già del 10 per cento, pari a circa sessanta milioni.

Il dato della raccolta pubblicitaria non è ancora stato rilevato nell'èra meloniana, ma visti gli ascolti che sta realizzando il nuovo palinsesto rischia di peggiorare ulteriormente da quando al settimo piano di viale Mazzini si è insediato il tandem Roberto Sergio-Giampaolo Rossi. Con dei conti come quelli della Rai, che si porta appresso quasi 600 milioni di debito, il calo di una delle poche voci positive nel bilancio è un segnale d’allarme da non sottovalutare. Tanto più che già nel 2021 l’allora ad della Rai Carlo Fuortes chiedeva in commissione di Vigilanza Rai un contributo maggiore dalla finanza pubblica per evitare di dover ridurre il perimetro di produzione: i soldi mancavano già allora, figurarsi oggi.

Dopo aver guardato una serie di ex volti Rai che hanno cercato (e trovato) fortuna altrove, come Massimo Gramellini o Bianca Berlinguer, la ciliegina sulla torta per i vertici Rai deve essere stato l’incontestabile successo di Fabio Fazio al suo debutto su Nove: il 10,5 per cento di share è un valore mai visto dalle parti di quel canale. La performance di Nove, che grazie al simulcast su tutte le reti Discovery ha toccato anche picchi del 13 per cento di share, conferma anche – in termini assoluti – un numero di spettatori essenzialmente pari a quelli che Fazio aveva lasciato a Raitre. In fondo, il conduttore l’aveva detto all’inizio della trasmissione: «Siamo sempre noi», una verità che evidentemente vale anche per il suo pubblico.

Su cosa punta la Rai

Il suo rinnovo era saltato nell’ultima parte dell’èra Fuortes, quando l'amministratore delegato aveva rinunciato a rilanciare sull’offerta di Discovery, secondo i maliziosi per guadagnarsi la benevolenza della futura premier Giorgia Meloni, all’epoca in forte ascesa nei sondaggi. La nuova dirigenza, coerente con la linea politica del governo, ha a sua volta lasciato correre la possibilità di recuperare la trattativa in extremis.

Ma la prima puntata di Che tempo che fa ha anche dimostrato la distanza siderale degli ingredienti con cui i privati e il servizio pubblico si contendono lo share. Da Fazio erano ospiti Liliana Segre e David Grossman – l’«autocensura» di Patrick Zaki, come l’aveva velenosamente definita l’amministratore delegato Sergio non ha intaccato la performance del programma - la Rai punta sul trash per risollevare l’ultimo talk politico del palinsesto. Per recuperare Avanti popolo di Nunzia De Girolamo, sprofondato la settimana scorsa al 3,6 per cento, si punta su Fabrizio Corona.

La terza ospitata – tutte e tre retribuite – di un pregiudicato su tutte e tre le reti del servizio pubblico ha fatto muovere le opposizioni, che hanno promesso per bocca dei consiglieri Francesca Bria (area dem) e di Alessandro Di Majo (area M5s) di chiedere chiarimenti in consiglio d’amministrazione. Per ora però l’unico elemento tangibile l’interrogazione depositata in commissione Vigilanza dal leader dei Verdi Angelo Bonelli, che si chiede se visto il curriculum professionale e giudiziario di Corona la sua ospitata sia coerente con il rispetto del contratto di servizio Rai.

L’interrogazione insiste anche sui compensi ricevuti da Corona e sull’opportunità di ospitarlo ad Avanti popolo questa sera. Per il momento, dal settimo piano di viale Mazzini a Domani segnalano la volontà di mandare in onda il programma così com’è. «Senza “censura”», dicono.

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