Prese di posizione, ripensamenti, attente analisi: l’autonomia differenziata resta al centro di un dibattito sempre più difficile. Mentre il ministro leghista Roberto Calderoli intende accelerare la stesura della riforma, FdI e Forza Italia frenano, le opposizioni si dichiarano contrarie, ad eccezione, almeno in parte, di Stefano Bonaccini del Pd. La questione riguarda anche il mondo della scuola. Diversi sono i profili coinvolti: costituzionale, economico, lavorativo (sia per quanto riguarda il reclutamento del personale docente e Ata, sia la mobilità) e didattico. Ma sul tema dell’istruzione è lo stesso ministro per gli Affari regionali ad avere dubbi sul trasferire piena competenza alle regioni. Il capitolo della scuola sta fortemente a cuore al Veneto. Già nel 2018, infatti, quando era in discussione la proposta dal governo Gentiloni, Luca Zaia, ha chiesto di inserirla tra le materie regionali, con la formula «norme generali sull’Istruzione», come prevista dalla Costituzione. Questa formulazione, già allora, aveva suscitato perplessità perché la scuola potrebbe essere interpretata come competenza esclusiva delle regioni, che potrebbero dunque anche decidere l’intera offerta formativa, a partire dalla didattica annuale. 

Il criterio della spesa storica

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Il capitolo della scuola, dunque, è tutto da chiarire. A questo, come ad altri settori, si applicheranno le nuove norme finanziarie. L’articolo quattro del disegno di legge proposto da Calderoli prevede, in materia di risorse finanziarie, il superamento del criterio della spesa storica con «la determinazione dei costi standard, dei fabbisogni standard (determinati da una commissione tecnica, ndr) e dei livelli di servizio cui devono tendere le amministrazioni regionali” e, inoltre, che le modalità di finanziamento siano individuate dalle Regioni tra “i tributi propri, le compartecipazioni o la riserva di aliquota al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale”.

Se è vero, come sostiene il senatore del Pd Carlo Cottarelli sul Foglio, che il criterio della spesa storica potrebbe non inficiare i livelli di trasferimento di risorse finanziarie dallo stato alle regioni, la riserva di aliquota del gettito fiscale potrebbe, invece, causare forti disuguaglianze in ragione della mancata redistribuzione sul territorio nazionale di quel gettito fiscale.

Stipendi da nord a sud

Rimangono ancora in sospeso le questioni relative al reclutamento, alla mobilità e alla didattica. Tra le rassicurazioni del ministero e i dubbi di sindacati e personale scolastico, la questione sembra essere ancora poco chiara. Ma quali sarebbero i rischi?

Un sistema di reclutamento su base regionale, lasciando l’ultima parola sugli stipendi agli enti locali, potrebbe creare notevoli differenze, con un forte rischio di dumping salariale tra le diverse aree geografiche italiane: un collaboratore scolastico del sud, ad esempio, potrebbe guadagnare meno di un collega del nord.

La mobilità

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Inoltre, sarebbe più difficile poter chiedere un trasferimento, limitando il diritto alla mobilità del personale scolastico: ad esempio, un docente pugliese che lavora in Veneto sarebbe costretto ad attendere e superare un nuovo concorso, dopo averne già vinto uno, se dovesse trasferirsi in un’altra regione.

Infine, diventerebbe regionale anche l’organizzazione della didattica (ad esempio, le classi, l’impiego di docenti, le attività multidisciplinari) e la pianificazione dell’offerta formativa (ad esempio, i progetti curriculari o extracurriculari), rischiando un processo separatista nella scuola.

Sul tema, però, una parte del governo mette le mani avanti: «Non è in discussione l’uniformità del sistema di assunzione del corpo docenti, così come dei programmi scolastici”, dice la sottosegretaria all’Istruzione, Paola Frassinetti.  Dello stesso avviso sembra essere anche il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, ascoltato dalle commissione Cultura di Camera e Senato: stipendi e programmi non saranno divisi con le regioni. In concreto, le questioni aperte verranno discusse e risolte solo nelle prossime settimane. 

Il piano costituzionale

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Il fondamento della proposta di legge a cui lavora il governo è l’articolo 116 della Costituzione, così come riformato nel 2001. Oltre a riconoscere le autonomie delle cinque regioni a statuto speciale, l’articolo 116 prevede che possano essere attribuite alle altre, con legge ordinaria, «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», soltanto in relazione ad alcune materie (tra cui le norme generali sull’istruzione) e secondo un preciso iter.

Tuttavia, il testo costituzionale (e l’interpretazione sistemica espressa dalla Corte costituzionale in diverse sentenze) è chiaro: da un lato, gli articoli 33 e 34 della Costituzione in materia di istruzione hanno «valenza necessariamente generale ed unitaria […] e richiedono di essere applicati in modo necessariamente unitario e uniforme in tutto il territorio nazionale» (sentenza 200 del 2009 della Consulta).

Dall’altro lato, nel definire «particolari» le «forme e le condizioni» dell’autonomia, si riferisce «alle particolari esigenze del contesto socio-economico del territorio regionale», dice la professoressa di Diritto costituzionale, Roberta Calvano. «A ritenere diversamente, ci troveremmo dinanzi all’assurdo per cui la norma designerebbe prima l’autonomia delle cinque regioni a statuto speciale, per poi prefigurare regioni ordinarie suscettibili di ottenere una specialità ancora più ampia di quella prevista dal primo comma dell’art. 116».

Ciò, dunque, significa che l’autonomia differenziata non possa tradursi in una mera devoluzione di ogni competenza alle regioni, né superare, per ampiezza (di materie) e intensità (di poteri), l’autonomia attribuita alle regioni a statuto speciale.

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