Ci sono voluti trent’anni per non avere neanche una verità giudiziaria, per non sapere niente di niente su chi ha deviato le indagini sull’uccisione di Paolo Borsellino. Trent’anni di manovre oblique, falsi pentiti, di imbeccate mirate, testimoni zittiti, prove manipolate.

E ora, a una settimana esatta dalla commemorazione dell’attentato di via Mariano D’Amelio, è arrivata una sentenza di assoluzione per uomini dello stato che – questa era l’accusa – avevano trasformato un balordo di borgata in un boss mafioso.

Per darlo in pasto a una magistratura nel migliore dei casi distratta o incapace, per consegnarlo a una pubblica opinione che voleva a tutti i costi e subito un colpevole, uno qualsiasi.

Trent’anni, una vita.

Per decretare che tre esponenti di un reparto investigativo, creato ad hoc con decreto della Presidenza del Consiglio per indagare esclusivamente sull’attentato di Capaci e su quell’altro cinquantasei giorni dopo, il “Gruppo Falcone-Borsellino”, non hanno indotto quello che veniva considerato una sorta di loro ”prigioniero" ad accusare innocenti poi condannati all’ergastolo.

La decisione

Il verdetto è di stasera, Tribunale di Caltanissetta. Assolto il poliziotto Michele Ribaudo «perché il fatto non costituisce reato”, prescrizione per i poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei, caduta l’aggravante mafiosa a loro carico è rimasta un’accusa di calunnia e il tempo trascorso li ha salvati. Per loro i pubblici ministeri avevano chiesto condanne dai 9 agli 11 anni.

Una sentenza che fa uscire i tre poliziotti da un gorgo e fa ripiombare ancora tanto buio su ciò che è accaduto dopo quel luglio del 1992, una macchinazione definita «il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana».

Le udienze sono state più di cento e il processo è durato quasi quattro anni, praticamente un’indagine sull’indagine sviluppata dai pubblico ministero Stefano Luciani che è partita dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, quello che ha ribaltato la ricostruzioni precedenti del massacro provocando la clamorosa revisione del processo Borsellino e la scarcerazione di sette imputati condannati ingiustamente.

Con atti investigativi taroccati, sentenze di corti di assise e corti di assise d’appello e di Cassazione che sono diventate carta straccia. Tutti che avevano abboccato (ma forse non proprio tutti, la procura di Caltanissetta guidata al tempo da Giovanni Tinebra ebbe un ruolo molto attivo nel costruire il caso), tutti che hanno scritto una pagina di giustizia vergognosa.

Ha aperto le danze una nota del Sisde, il servizio segreto civile, che incorona capomafia un mezzo squilibrato. Si chiama Vincenzo Scarantino: lo stato mette nelle sue mani il destino dell’inchiesta sulla morte di Paolo Borsellino.

Rinchiuso nel carcere di Pianosa racconta che viene minacciato, torturato, che gli mettono vermi nella minestra, che lo convincono che ha l’Aids, he gli dicono che prima o poi l’avrebbero impiccato. Così confessa e ritratta, ritratta e confessa.

Fino a quando cede per sempre e racconta "tutto” sulla strage che non ha fatto. I tre poliziotti accusati e assolti erano agli ordini di Arnaldo La Barbera, prima capo della squadra mobile di Palermo, poi a capo di quel ”Gruppo Falcone-Borsellino” ma anche a libro paga dei servizi di sicurezza.

Ed è questo il punto chiave: perché i servizi segreti italiani sono entrati pesantemente in campo per orientare l’inchiesta sull’autobomba di via D’Amelio? Volevano garantire solo pezzi di Cupola o anche qualcun altro?

Per molto tempo i protagonisti delle prime indagini sulla strage si sono difesi chiamando in causa, per l’abbaglio preso, l’“ansia da prestazione”, la necessità di chiudere il caso in quella stagione in cui l’Italia sembrava colare a picco.

Questo Vincenzo Scarantino avevano provato già nel 1989 a posizionarlo su un’altra scena del crimine, l’omicidio di Nino Agostino, un poliziotto di Palermo ucciso insieme alla moglie Ida. A qualche settimana dal delitto fu il capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera a mostrare al padre del poliziotto, Vincenzo, una foto di Scarantino. Ma la sentenza di ieri sera ribalta molte delle ricostruzioni fatte e fa calare un altro sipario sulla strage.

Ed è un altro brutto colpo per i figli del procuratore, presenti in aula ieri pomeriggio e decisi a non partecipare il 19 luglio a manifestazioni pubbliche. Per protesta «fino a quando nojn conosceremo la verità». Per protesta soprattutto contro i magistrati che “hanno tradito” il padre.

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