Per il costituzionalista Enzo Cheli la riforma targata Giorgia Meloni rischia di «instaurare una forma di dipendenza del parlamento rispetto al governo» e di «non di aumentare ma di ridurre la stabilità di governi». Per di più «c’è una evidente riduzione dei poteri del capo dello stato».

Per il presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli, il Colle mantiene i poteri solo «nominalisticamente, sostanzialmente li svuota, sia per la nomina del governo sia per la possibilità di sciogliere il parlamento, sia per la nomina dei ministri». E non rafforza il parlamento perché con il premio di maggioranza del 55 per cento «c’è un rischio di un circuito invertito nel quale è il governo a fare indirizzo al “suo” parlamento».

La riforma costituzionale non ha iniziato il suo iter (anzi corre voce di modifiche corpose proprio da parte della premier) ma rischia la morte in culla. Una nuova, blasonatissima, sfilza di no è arrivata ieri dal cuore del palazzo. Alla Camera, nell’auletta dei gruppi, che in realtà è un’aulona, l’associazione degli ex parlamentari insieme alla stampa parlamentare ha chiamato un esercito di scolaresche: studenti dei licei e degli istituti, portati dai loro insegnanti più versati per l’educazione civica (come il professore Ciancio, dell’istituto Leopoldo Pirelli di Roma, che all’uscita apostrofa i cronisti: «Scrivete che bisogna cambiare la legge elettorale!»).

Ma ci sono ex onorevoli di tutte le stagioni, di tutte le tendenze e per lo più di tutte le sfumature del no, da Luigi Zanda ad Anna Finocchiaro, a Giulia Rodano, Anna Maria Carloni, Franca Chiaromonte, Antonello Soro, Laura Pennacchi, Mariotto Segni, Giampaolo D’Andrea, Enzo Bianco, Giorgio Merlo, Gaetano Quagliariello. Fra gli organizzatori c’è anche la premiata Associazione alfieri della Repubblica: un’invenzione di Giorgio Napolitano, minorenni che «rappresentano un modello di buon cittadino».

Il titolo del seminario è “Costituzione, parlamento, democrazia”, lo svolgimento è un’analisi spietata del testo meloniano. Inizia Cinzia Dato, ex senatrice siciliana ulivista, con piglio spumeggiante apre la cerimonia e sottolinea che il testimone che si vuole passare è la difesa del parlamento: «Ragazzi noi siamo il vostro passato, ma voi siete il futuro di tutti». La parola va all’anziano ex Dc ed ex Forza Italia Giuseppe Gargani, oggi presidente degli ex onorevoli: «Difendere la Costituzione e il parlamento per noi è uno stato d’animo», uno stato d’animo combattente s’intende. Squilla il suo predecessore Antonello Falomi, ex Pci-Pds-Ds: «La nostra Costituzione non è da buttare. Più che di un governo stabile, l’Italia ha bisogno di un assetto sociale stabile».

«Non in nome di Mattei»

Per il testo meloniano non c’è scampo, è un crescendo rossiniano. Paola Balducci, giurista, ex deputata ed ex Csm in quota sinistra, anche lei ai ragazzi: «Senza pretesa di istruirvi, ci impegneremo accanto a voi». Mariapia Garavaglia, ex popolare eletta per l’ultima volta nel Pd, in bellissima giacca rossa, infiamma la platea: la riforma è «sciancata».

Poi a Meloni: «Quando nel suo discorso di insediamento ha citato Tina Anselmi ed Enrico Mattei mi sono commossa», ma i due sono stati partigiani, «e allora chi cita Anselmi e Mattei sappia che la sovranità popolare è nel parlamento. Se si taglia alla radice la Costituzione non si lo faccia nel nome né di Anselmi né di Mattei. E neanche nel nostro nome».

A questo punto Dato chiama sul pulpito quello che presenta, senza giri di parole, come «l’autore della riforma»: è Francesco Saverio Marini, il consigliere di palazzo Chigi che poi è l’unico della compagnia della premier che sa di diritto costituzionale (gli altri, da Marcello Pera a Gianni Letta hanno già detto come la pensano sul testo, cioè male). Ma Marini non risponde all’appello. Non c’è. «Non vorrei si trattasse di un ripensamento», chiosa Dato.

Per fortuna arriva il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè, spedito da Lorenzo Fontana a dare il benvenuto ai convegnisti. Mulè è un forzista, un giornalista e un uomo di mondo: glissa sulla riforma – fra Mes, manovra e Salvini, la maggioranza ha già abbastanza – e si lancia in un elogio delle vecchie leve del parlamento. Strappa un applauso.

I tre tenori

Il finale è affidato a un quartetto di ex presidenti delle camere. Fausto Bertinotti, ex Rifondazione attacca: c’è una profonda crisi della politica, «ogni ipotesi di fuga da questi problemi attraverso acrobazie istituzionali è destinato a fallimento», a meno che non sia «il grimaldello» verso «una democrazia autoritaria che sradica il suo futuro dalle radici democratiche e antifasciste della Repubblica».

Per Pier Ferdinando Casini, ex Dc-Ccd-Udc-Casa della libertà e ora eletto dal Pd: si può fare tutto, dice, basta essere onesti, e invece «ci viene spiegato che non cambia nulla. È una questione di lealtà: si cambia tutto a partire da funzione di terzietà del capo dello stato, una terzietà senza unghie è nulla».

Antonio Scognamiglio, ex FI: «La riforma presidenziale si può fare solo se si perde la guerra con d’Algeria», riferimento alla Francia. Finalmente arriva uno favorevole, è Gianfranco Fini, ex Msi ed ex An: tutte critiche «aprioristiche», dice, lui avrebbe preferito «il modello tedesco» il premierato all’italiana «non apre alla democrazia autoritaria». Si va verso una nuova Repubblica? «Magari». Ma poi critica i governi tecnici.

Lì Casini perde il suo aplomb bipartisan e gli ricorda il 2011, la sua rottura con Berlusconi – l’anno prima fu quello del famoso «che fai, mi cacci?» – e il suo appoggio al governo Monti. Fini deve ammettere: «Con le regole attuali era doveroso ai sensi della Costituzione». Ma a questo punto si inserisce Bertinotti, a cui i governi tecnici non piacciono, ma da sinistra: «Non è affatto detto che quella scelta sia stata coerente con il dettato costituzionale».

Fini fa resistenza e tenta l’asse con il post comunista: «Se fossimo stati in una Repubblica presidenziale saremmo andati alle elezioni». La seduta è tolta, ma la passione è tanta: dal microfono il professore Stefano Ceccanti ancora difende la repubblica parlamentare, «ma deve essere comprensibile ai cittadini». E all’uscita Fini ammette davanti ai cronisti: la riforma di Meloni non è da bocciare: ma neanche da promuovere, «semmai da rimandare a settembre».

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