Altro che «riforma light», il presidenzialismo prende sempre più i contorni di un Frankenstein istituzionale, che modifica in modo incisivo non solo le prerogative del capo dello stato, ma anche quelle del parlamento. L’unico vertice risolutivo sarà quello tra i leader del centrodestra, ma per ora la battaglia è stata vinta da Fratelli d’Italia.

Sono serviti alcuni incontri fiume e anche toni molto aspri nel confronto con la Lega, ma il risultato è stato un pacchetto di emendamenti che modificano in modo sostanziale il testo base della ministra Elisabetta Casellati, virando in modo deciso verso il simul stabunt, simul cadent, ovvero che la durata della legislatura sia determinata da quella del governo. Questo è il passaggio più delicato e ancora in bilico. Più certi invece sono la cancellazione del premio di maggioranza dalla riforma costituzionale e l’inserimento del limite del doppio mandato per il premier.

L’emendamento finale dovrebbe prevedere che il premier eletto direttamente possa essere sfiduciato solo con una mozione ad hoc della maggioranza. Una volta venuta meno la fiducia, il premier avrà una settimana per formare un nuovo governo su cui chiedere la fiducia, chiedere al capo dello stato di sciogliere le camere oppure dimettersi. Solo in questo caso può subentrare il secondo premier, scelto nel perimetro della maggioranza parlamentare.

Una soluzione decisamente tortuosa che continua a non convincere i leghisti, che continuano a chiedere di tornare al testo originario di Casellati, anche se ormai FdI con Alberto Balboni – il presidente della commissione Affari costituzionali che cura il dossier e ha materialmente scritto gli emendamenti – sembra inamovibile nelle modifiche decise. Il termine per presentare gli emendamenti è fissato per lunedì e si attende il rientro di Meloni dal viaggio in Giappone per un suo definitivo avallo dopo aver sentito gli alleati.

A mostrare le crepe nell’impianto della «madre di tutte le riforme», tuttavia, è la voce violentemente fuori dal coro del senatore di FdI ed esperto di riforme Marcello Pera, che ha tuonato: «Questo non è premierato, questo è solo un pasticcio inaccettabile», e ha detto di sperare che Meloni blocchi tutto e il testo «venga riscritto» perché sono troppe le cose che non si capiscono. Parole che pesano come pietre, visto il ruolo di chi le pronuncia e il fatto che lo stesso Pera era inizialmente incaricato insieme a Balboni di lavorare agli emendamenti.

Una tale bocciatura senza appello, con addirittura l’invito a strappare tutto e ripartire da un foglio bianco, è la misura sia del livello di scontro interno che dei potenziali rischi di un sì al testo ulteriormente pasticciato. Infatti, il Pd si è affrettato ad avallare le critiche di Pera, definendo la riforma attuale «inemendabile», che «indebolisce sia il Quirinale che il parlamento»; per questo «proporremo emendamenti per un sistema ispirato al modello tedesco», ha detto il responsabile Riforme, Alessandro Alfieri.

Il braccio di ferro

Al netto dello scontro sul testo, il dato politico è quello di una sempre più schiacciante egemonia di Fratelli d’Italia su tutto ciò che riguarda le riforme. È successo con quella dell’Autonomia, in cui FdI ha imposto emendamenti di coesione nazionale che possono essere sufficienti a depotenziare la portata federalista della riforma.

Succede ora con il premierato, in cui FdI ha imposto la soluzione che avrebbe preferito sin dall’inizio e che era stata diluita dal testo Casellati. Lo stesso, secondo fonti di maggioranza, succederà anche con l’introduzione del terzo mandato per i presidenti di regione: il ddl è stato presentato dalla Lega per concedere un altro giro in Veneto a Luca Zaia, FdI ha promesso che se ne discuterà dopo le elezioni europee, ma la sensazione interna è che non intenda davvero prendere in considerazione l’opzione. Che senso avrebbe avuto – è il ragionamento – inserire il vincolo dei due mandati per il premier eletto per poi offrirne tre ai governatori?

Meloni e Salvini, del resto, hanno scelto due strategie diametralmente opposte per interpretare i mesi che li separano dalle elezioni europee. Il leader leghista ha scelto di intestarsi battaglie di impatto mediatico, con l’obiettivo di insidiare l’elettorato della premier da destra anche a costo di incassare sconfitte silenziose sul piano delle riforme in discussione.

È stato così anche sul caso Salis, in cui Salvini si è speso per sollevare dubbi sul profilo dell’italiana detenuta invece di sostenere il lavoro dei ministri competenti per sbloccare la situazione con le autorità ungheresi. Nei mesi scorsi, però, è successo anche con il corteggiamento al generale Roberto Vannacci, la difesa dei gruppi pro vita e l’ordine del giorno che sconfessava la linea di Meloni sul sostegno all’Ucraina. Tutte battaglie molto ideologiche e ad alto tasso di divisività, che Salvini è da sempre abile a cavalcare in ottica elettorale e che potrebbero essere determinanti per reggere alle europee.

Per contro, Meloni sta adottando la strategia opposta. Alle europee il pronostico è quello di volare oltre il 30 per cento, dunque la premier non ha la necessità di intestarsi specifiche battaglie per convincere il suo elettorato. Per questo non ha una vera impellenza di portare il testo sul premierato in aula entro il voto, se il rischio di accelerare è che la riforma non corrisponda ai suoi desiderata.

Invece che puntare sulla polemica contingente, Meloni ha orientato i suoi a incidere punto per punto su tutti i progetti di legge in aula, ottenendo il massimo dalla mediazione dentro la maggioranza. La logica è quella del medio periodo: approvare riforme scritte a immagine e somiglianza della premier, lasciando Salvini a dibattersi nella polemica.

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